Un vertice virtuale delle democrazie, chiamate a difendersi nella lotta contro le autocrazie. Questo è lo spirito con cui Joe Biden ha convocato il “Leaders’ Democracy Summit” per il 9 e 10 dicembre, preludio virtuale di un vertice previsto in presenza per il prossimo anno. 110 i partecipanti presentati dalla Casa Bianca, fra cui Capi di Stato, rappresentanti della società civile e mecenati del settore privato, riuniti per discutere sul futuro dei regimi democratici di tutto il mondo. Tre sono i temi principali del summit: la difesa dall’autoritarismo, la lotta alla corruzione e la promozione dei diritti umani spesso attaccati dai regimi autocratici.
Una risposta alle nuove esigenze del tempo, il vertice sembra essere per il presidente americano anche un modo per rilanciare la propria politica estera, uscita scottata dall’esperienza afghana. Dopo la passata amministrazione Trump, infatti, Washington torna con Biden a adottare una politica di leadership mondiale, nel tentativo di costruire una nuova rete egemonica finalizzata alla difesa e alla legittimità democratica. In un comunicato della Casa Bianca il summit viene rappresentato come una nuova «opportunità» concessa alle democrazie mondiali «di ascoltarsi reciprocamente ed ascoltare i propri cittadini, condividere i successi, guidare la collaborazione internazionale e discutere con onestà delle sfide che devono essere affrontate, in modo da rafforzare collettivamente le basi per il rinnovamento democratico». Il testo prosegue nel sottolineare l’impegno presidenziale alla ricostruzione delle «alleanze con i partner e alleati democratici» al fine di «opporsi alle violazioni dei diritti umani, per affrontare la crisi climatica e per combattere la pandemia globale, e donare centinaia di milioni di dosi di vaccino ai paesi di tutto il mondo». Una nuova immagine è quella quindi rilanciata dalla retorica americana, pronta a descrivere il paese a stelle e strisce che riprende il suo ruolo di guida del campo democratico, lanciato verso le nuove sfide presenti ad oggi nel panorama globale.
L’invito a Taiwan e la rabbia cinese. Mosca e Pechino esclusi dal summit
Esclusi quindi dal vertice quei Paesi verso i quali il processo democratico è giudicato da Washington insufficiente o del tutto assente, primi fra tutti Russia e Cina. L’asse sino-cinese rappresenta infatti, secondo una già sperimentata retorica americana, il contraltare ideologico nella difesa del regime democratico e nella salvaguardia dei diritti umani e civili. Significativa è invece la convocazione di Taiwan. Il ministro del Digitale di Taipei e il suo ambasciatore presso Washington rappresenteranno infatti il governo democratico di Formosa nei due giorni del summit. Come si poteva prevedere, l’invito è stato considerato l’ennesimo atto provocatorio, degli Stati Uniti, portato avanti ai danni della Cina continentale, rischiando così di compromettere il recente disgelo avvenuto fra i due paesi in seguito all’incontro virtuale fra Xi Jinping e lo stesso presidente americano lo scorso 15 novembre. In quest’ultima occasione gli Usa hanno ribadito la propria aderenza alla politica della “One China”, pur sottolineando la necessità del mantenimento dello status quo nel Pacifico. Il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Zhao Lijian, ha commentato con fastidio la notizia della presenza taiwanese al summit democratico, affermando in conferenza stampa «la ferma opposizione della Cina all’invito degli Stati Uniti alle autorità di Taiwan», ribadendo con fermezza la linea di Pechino: «C’è solo una Cina al mondo: il governo della Repubblica popolare cinese è l’unico governo legale che rappresenta l’intera Cina. Taiwan è una parte inalienabile del territorio cinese». Anche il presidente della Commissione per la sicurezza e l’anticorruzione della Duma di Stato russa, Vasily Piskalev, non ha potuto nascondere il biasimo per il comportamento americano, definendo il vero scopo del “Leaders’ Democracy Summit” quello di «dividere il mondo in alleati (buoni) e nemici (cattivi) e creare, così, una situazione di contrasto».
Un nuovo ordine mondiale, l’esclusione delle antidemocrazie.
Indicativa anche l’assenza della Turchia di Erdogan dalla lista dei convocati al vertice, pur essendo membro ufficiale della Nato e formalmente alleata con l’America. Il più occidentale dei paesi mediorientali o il più orientale dei paesi occidentali si vede quindi escluso dalla riunione dei paesi democratici, sottolineando quindi la condizione autocratica del proprio leader, il quale, nelle sue stesse autorappresentazioni propagandistiche sembra maggiormente avvicinarsi all’immagine califfale che a quella presidenziale. Per il mondo arabo sono stati convocati invece l’Iraq, malgrado la sua traballante democrazia, e il Pakistan, nonostante gli attriti con Washington, mentre sono stati esclusi gli storici alleati americani come l’Egitto e l’Arabia Saudita. Anche l’Europa non è stata esente dalla mannaia democratica di Biden. La Polonia, nonostante le accusa di violazione dei diritti umani nella gestione dell’emergenza migranti al confine con la Lituania, ha ricevuto la sua convocazione, a differenza dell’Ungheria di Orban, dove il regime democratico, nato dalle ceneri della ex repubblica sovietica, sembra soffrire per la presenza di una asfissiante autorità presidenziale. Significativa, invece, la presenza del Brasile di Bolsonaro, leader di estrema destra apertamente filo-trumpiano e critico nei confronti della attuale amministrazione americana.
È possibile pensare che una nuova cortina di ferro stia lentamente calando a dividere il mondo in una contrapposizione geopolitica netta fra democrazie e regimi autocratici? Probabilmente il contrasto tra i due poli mondiali non è più tale da minare l’equilibrio globale al pari di quanto è successo nel secondo dopoguerra. La partita mondiale pare oggi invece essere giocata da grandi super potenze che si muovono su un campo frammentato, costituito da pezzi di un puzzle, diversi l’uno con l’altro, ma tutti immersi nel grande marasma di un omologante globalizzazione.
Daniele De Camillis