Dall’agosto 2021, dopo la fuga del presidente Ashraf Ghani, l’Afghanistan vive un periodo di estrema difficoltà sotto il rigido controllo dei talebani. Il governo instaurato dai fondamentalisti, da allora, nonostante le numerose difficoltà, tiene in mano il paese con il pugno di ferro. La mancanza di fondi internazionali – che corrispondevano all’80% del budget nazionale di Ghani – l’estrema povertà diffusa, la crisi alimentare, la mancanza di infrastrutture, la tensione sociale e il proseguimento delle attività belliche, mai veramente cessate, rendono la gestione dell’Afghanistan un’impresa impossibile anche per la rigida autarchia religiosa imposta dagli studenti coranici.
Da qui i timidi tentativi portati avanti dalle delegazioni talebane di ottenere il riconoscimento internazionale, paventando vuote dichiarazioni e promesse di equità sociale e di genere. La forte limitazione dei diritti a qui è stata sottoposta la popolazione civile, soprattutto le donne e le bambine, nel nome della Shari’a, è il motivo principale dell’isolamento diplomatico ed economico a cui il paese è stato condannato, a causa del cieco fanatismo dei suoi leader. Tuttavia, ci si domanda, fino a che punto sia lecito lasciare milioni di uomini, donne e bambini senza i necessari aiuti umanitari, al fine di sperare in un eccezionale cambiamento da parte dei mujaheddin.
Da Oslo a Tashkent, i tentativi proseguono
Su questo spinosa questione diplomatica vertono i rari incontri diplomatici avvenuti all’esterno dell’Afghanistan, come il meeting di Oslo – avvenuto a gennaio scorso – e la recente conferenza ospitata a Tashkent, capitale dell’Uzbekistan, chiusa alla fine del mese scorso, dove oltre 100 diplomatici, provenienti da 30 paesi diversi si sono riunite per discutere delle sorti dell’Afghanistan. «L’isolamento internazionale dell’Afghanistan porterà inevitabilmente a un ulteriore deterioramento della situazione umanitaria. È importante non permetterlo, poiché è in gioco il destino di milioni di persone» commenta, tramite il suo portavoce ufficiale, il presidente uzbeko Shavkat Mirziyoyev. «Si deve riconoscere l’impegno del governo ad interim afghano a compiere passi in avanti in termini di ricostruzione pacifica, sforzandosi di migliorare la situazione socioeconomica e di stabilire relazioni amichevoli con i Paesi vicini e una cooperazione reciprocamente vantaggiosa con la comunità internazionale. Dobbiamo promuovere e sostenere questi sforzi.» conclude Mirziyoyev.
È evidente l’interesse dei paesi asiatici, compresi Russia e Cina, per la “normalizzazione” della situazione afghana. Il paese, infatti, rischia di diventare l’ennesima polveriera in fiamme in grado di far scoppiare i delicati equilibri geopolitici, destabilizzando la regione e colpendo delicati interessi. Non solo il controllo politico della Russia sulle ex aree sovietiche, Tagikistan, Turkmenistan, Uzbekistan ecc.… ma anche gli immensi investimenti cinesi della Belt and Road Initiative potrebbero essere messi a rischio. Un’eventualità, ovviamente inaccettabile tanto per Mosca quanto per Pechino.
Un dialogo fra sordi, i “diritti” della Shari’a
La comunità internazionale ha ribadito che lo scongelamento dei fondi del precedente governo afghano, nonché il riconoscimento internazionale dell’attuale governo, potranno essere presi in considerazione solo dopo il raggiungimento di due obiettivi. Il primo, riguarda la promessa da parte dei rappresentanti talebani di non sostenere né ospitare più organizzazione terroristiche all’interno del proprio territorio, sede storica di numerose cellule terroristiche, prime fra i quali al-Qaeda. L’ultimo rapporto del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, riferisce, infatti, come «i membri di al-Qaeda rimangono nel sud e nell’est dell’Afghanistan, godendo di una maggiore libertà in Afghanistan sotto il governo talebano, pur limitandosi al momento a consigliare e sostenere le autorità de facto».
Nel breve periodo, tuttavia, la principale minaccia resta l’IS -K (Islamic State Khorasan), ramo locale dello Stato Islamico, il quale, secondo il rapporto ONU «ha aumentato la sua presenza nell’Afghanistan settentrionale e orientale». Questo è il segno della difficolta talebana del controllo del proprio territorio, essendo lo stato islamico, a differenza di al – Qaeda, in pessimi rapporti con il governo di Kabul. Non è un caso, infatti, che l’Isis afghana abbia più volte rivendicato i suoi attacchi –in Afghanistan e nei paesi limitrofi – come dimostrazione della propria capacità di controllare i confini ai danni della credibilità delle forze di sicurezza talebane, nell’intento di attirare a sé nuove reclute della regione.
La seconda questione di fondamentale importanza resta, per la comunità internazionale, il rispetto dei diritti della popolazione civile, specialmente delle donne, costrette a vivere all’interno di «un sistema di repressione che discrimina le donne e le ragazze afghane in ogni aspetto della loro vita», secondo i dati raccolti da un recente rapporto di Amnesty International, che documenta le violenze sofferte da donne e bambini nel corso di quest’ultimo anno.
Tuttavia, i talebani non sembrano disposti a cedere. Su quest’ultimo punto, infatti, sono recenti le dichiarazioni del leader supremo Hibatullah Akhundzada. Durante un incontro con i governatori provinciali di Kandahar, ha ricordato la «la necessità di preservare i valori islamici» chiedendo «l’attuazione della legge della Shari’a». «Le leggi fatte dagli uomini – ha dichiarato – non sono applicabili. Nell’emirato islamico, il comando spetta solo a Dio e la soluzione a tutti questi problemi è nella sharia. La sovranità dell’Emirato islamico è agli ordini di Dio e non si decide attraverso petizioni della gente secondo i vari stati d’animo, né si tratta di una repubblica», ha ricordato convinto il mullah Akhundzada, ribadendo che alle donne «siano dati tutti i diritti, previsti dalla Shari’a», che, almeno secondo l’interpretazione talebana, è come dire: abbiano il diritto di respirare, ma senza fare troppo rumore.
Daniele De Camillis