Sventola la bandiera del movimento jihadista talebano sul palazzo presidenziale di Kabul.

«Abbiamo raggiunto una vittoria che non ci aspettavamo» in questo modo il mullah Abdul Ghani Baradar, leader ad interim del movimento, commenta la presa della capitale, poco dopo l’entrata dei miliziani nelle strade della città, avvenuta in tempi record. Lo stesso mullah sembra quasi non credere alla facilità della vittoria conseguita, invitando i suoi compagni all’«umiltà davanti ad Allah», definendo questo periodo «il momento della prova» per la tenuta del paese nelle mani degli studenti delle scuole coraniche. Difatti l’esercito afghano, che sulla carta contava 350.000 unità, anche se stime più realistiche ne dimezzano il numero, si è arreso quasi senza colpo ferire. Il morale delle truppe afghane e la corruzione dei suoi ranghi hanno mostrato l’incapacità dell’Afghanistan di formulare una strategia di resistenza, ignorando anche la possibilità di riunire i vari gruppi etnici e tribali attorno a un’unica causa nazionale. La nazione Afghana non si è mai autonomamente formata e di questo vuoto i talebani ne hanno approfittato, prendendo il controllo del paese in tempi così veloci da superare anche le previsioni più funeste.

Le donne sotto regime

Il ritorno dei talebani mette a repentaglio la vita e la sicurezza raggiunta in questi ultimi vent’anni nel paese. La presenza occidentale, seppur ambigua e di certo non disinteressata, ha contribuito a portare in Afghanistan quei diritti civili e quelle garanzie democratiche che rischiano di non sopravvivere al nuovo regime. Il gruppo estremista degli studenti di Allah è noto per l’interpretazione letterale e l’applicazione intransigente della legge islamica, la Sharia. Il passato governo talebano, dal 1996 al 2001, impose pesanti restrizioni e divieti sul comportamento e sull’abbigliamento, soprattutto delle donne, costantemente controllate dalle forze di polizia. Anche i reati più banali come l’ascolto della musica, vietato dall’islam integralista, o insulti al decoro, come lo smalto sulle unghie, venivano severamente puntiti con umiliazioni pubbliche e punizioni fisiche esemplari, come il taglio delle dita o la fustigazione. Per le donne accusate di adulterio era prevista, invece, la lapidazione. Ad oggi i talebani, invece, sembrano voler presentare al mondo un volto più moderato. Alcuni portavoce del movimento, durante il primo discorso pubblico per la proclamazione dell’Emirato, hanno parlato del rispetto dei diritti delle donne e della libertà di stampa. Alla Nbc News, Zabihullah Mujahid, candidato alla carica di ministro dell’Informazione e della Cultura nel nuovo governo.  ha dichiarato che i talebani concederanno alle donne «tutti i diritti che l’Islam promette» e che le cittadine afghane «possono diventare dottori e insegnanti, possono essere istruite e lavorare a favore della società- aggiungendo – Sono sorelle dobbiamo mostrare rispetto verso i loro confronti, non devono aver paura. I talebani sono essere umani. Hanno lottato per il nostro paese. Le donne dovrebbero essere orgogliose di noi, non spaventate». Malgrado tali dichiarazioni sia la comunità internazionale che la popolazione civile resta assai scettica sulla tutela dei diritti delle donne da parte del neo-regime, mentre realisticamente i più considerano quello dei talebani un malcelato tentativo di prendere tempo e rassicurare la popolazione civile. A conferma di questi timori giunge il divieto di ascoltare musica in pubblico, secondo un provvedimento che ricalca quello in vigore tra il 1996 e il 2001, e l’obbligo per le donne, annunciato dallo stesso Mujahid, di restare a casa e smettere di lavorare. «E’ per il loro bene, per impedire maltrattamenti» ha dichiarato Mujahid nella seconda conferenza stampa concessa ai giornalisti dalla presa di Kabul, una decisione «temporanea» giustificata dal fatto che «le forze di sicurezza al momento non sono operative e non sono addestrate nell’affrontare la donna, nel parlare con le donne. Quindi, in questo momento dobbiamo fermare le donne finché non ci sarà una piena sicurezza per loro. Quando ci sarà un sistema appropriato, potranno tornare al lavoro».

L’epopea dell’Occidente e la fuga dall’Afghanistan

A quasi un mese dal ventennale delle torri gemelle, evento che ha sancito l’entrata in guerra degli Usa e della Nato in Afghanistan, i talebani festeggiano la “liberazione” del paese dalle forze occidentali e dal governo di Ashraf Ghani, salutando l’avvento del nuovo emirato. Prosegue invece la fuga precipitosa dal paese per i diplomatici occidentali e per i lavoratori stranieri, soprattutto per la stessa popolazione civile. Le migliaia di persone in fuga verso l’aeroporto, l’assalto disperato ai velivoli in partenza sulla pista e le drammatiche scene viste in questi giorni dai notiziari hanno suscitato commozione in tutti noi, rendendoci testimoni di una catastrofe umanitaria in corso, in verità già annunciata in precedenza.

Ad aggravare la situazione è anche la presenza della corrente jihadista rivale dell’Isis, nella sua affiliazione afghana della provincia del Khorasan, l’ISIS-K, a cui vanno attribuiti gli attentati terroristici all’aeroporto di Kabul di ieri 26 agosto.

Come neve al sole tutti gli sforzi della NATO per la costruzione di istituzioni politico militari afghane autonome si sono sciolte nell’arco di una settimana, lasciando l’Afghanistan in mano ai jihadisti, in una situazione ancora più difficile rispetto a quella di vent’anni fa. Il crollo dell’esercito afghano, demoralizzato corrotto e sottopagato, la rapidissima riconquista talebana e la fuga degli americani dall’Afghanistan, sono la conclusione fallimentare di una delle ultime epopee militari occidentali. L’incapacità americana di mantenere il controllo in un’area ad alto livello strategico come quella afghana sembra segnare definitivamente la fine della leadership mondiale statunitense.

Daniele De Camillis

Di Fausta Dal Monte

Giornalista professionista dal 1994, amante dei viaggi. "La mia casa è il mondo"

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