La partita nel Pacifico per il nuovo ordine mondiale. Le isole contese fra Pechino e l’Occidente.
Rigettato il “Common Development Vision”, la proposta cinese di un piano di accordi bilaterali con dieci stati del pacifico, inerenti commercio e sicurezza. «I tempi non sono maturi» ha commentato il ministro degli Esteri cinese Wang Yi, inviato nei giorni scorsi dal presidente Xi Jinping in un tour degli arcipelaghi del pacifico, proprio per promuovere il piano di accordi proposta dalla Cina agli stati insulari. L’obiettivo è quello di garantire il primato di influenza di Pechino ai danni di Washington e Canberra. Tuttavia, a causa delle «profonde preoccupazioni» espresse da alcuni stati del Pacifico, trainate dall’opposizione del presidente di Palau, Surangel Whipps, che insieme a insieme a Tuvalu, alle Isole Marshall e a Nauru non hanno partecipato alla riunione virtuale con il ministro cinese, in virtù del loro rapporto con Taiwan, l’accordo bilaterale è saltato e il presidente Xi Jinping ha dovuto accontentarsi di quelle che Wang ha definito come «vittorie minori». «Come sempre, mettiamo il consenso al primo posto tra i nostri Paesi durante qualsiasi discussione sui nuovi accordi regionali», ha affermato Frank Bainimarama, primo ministro delle Isole Fiji, le quali, dopo aver inizialmente aderito al generale consenso verso le proposte cinesi, hanno aderito all’Ipef (Indo-Pacific Economic Framework), la controproposta americana per arginare le pretese del gigante d’oriente sulla regione.
La controproposta delle potenze occidentali
Il piano di accordi previsto dalla Cina è il secondo atto di una politica di forti investimenti fatti nella regione, con il dichiarato obiettivo di garantire il primato di influenza cinese su un’area fondamentale, come quella del Pacifico, per la sfida a distanza con gli Usa. Il primo grande successo di tale politica espansionistica è rappresentato dall’accordo bilaterale stipulato da Pechino con le Isole Salomone, poste a Nord Ovest dell’Australia. «Il più grande errore strategico dell’Australia dalla Seconda guerra mondiale» lo ha definito Penny Wong, neoeletta ministra degli Esteri del governo laburista australiano, che dopo il mea culpa fatto alla politica del suo paese – del passato governo – torna a considerare la riabilitazione del primato australiano una «massima priorità del suo mandato». Forte è infatti il timore per l’Australia, così come per la Nuova Zelanda, partner americani per il controllo del Pacifico, che la Cina si stia muovendo verso l’installazione di una base militare nell’arcipelago. Al tour di Wang, infatti le potenze occidentali hanno risposto rilanciando il piano denominato Ipef (Indo-Pacific Economic Framework), presentato a Tokyo da Joe Biden stesso, attraverso il quale, l’America, così come Giappone, Australia e Nuova Zelanda, spera di contrastare i forti investimenti cinesi, trattenendo gli stati insulari nella propria storica area di influenza. Volata alle isole Fiji, la Wong ha incontrato il primo ministro Frank Bainimarama, assicurando non solo l’impegno australiano a contrastare le minacce del cambiamento climatico, questione esistenziale per numerosi stati del Pacifico, dato il preoccupante innalzamento del livello del mare, ma ricordando a tutti la credibilità della leadership occidentale che, a differenza di quella orientale, «non impone oneri finanziari insostenibili, non erode le priorità o le istituzioni del Pacifico e crede nella trasparenza».
L’alternativa cinese
Insomma, gli stati del Pacifico si ritrovano nel pieno di una contesa che vede Cina da un lato, Stati Uniti, Australia e i suoi partner dall’altro, litigare per garantire il proprio primato nella regione. Il generale disinteresse americano degli anni passati verso le questioni del Pacifico e il vuoto di potere lasciato dai governi conservatori australiani, hanno indebolito il consenso filoccidentale della regione, aprendo un’occasione di dialogo di potenzialmente alternativo che la Cina, di certo, non vuole lasciarsi scappare. Entro il 2025, annuncia Xi Jinping, l’obiettivo sarà quello di raggiungere una “Free Trade Area” a tutto campo, riguardante commercio, infrastrutture, energia, agricoltura, investimenti, turismo, salute pubblica e scambi culturali, e soprattutto la promozione della Global Security Initiative (GSI), proposta da Pechino come alternativa all’ordine di sicurezza mondiale garantito dalla leadership americana, riscrivendo le regole dell’ordine mondiale. Non interferenza e riqualificazione delle identità locali sono i principi politici con i quali Xi Jinping, durante un discorso ai ministri degli Esteri del Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) ha cercato di esortare gli alleati ad «opporsi all’egemonismo e alla politica di potere» che per troppi anni ha incatenato quella regione ad interessi non regionali. Una mentalità da «guerra fredda» che Pechino invita a «rifiutare, al fine di favorire il confronto per lavorare insieme e costruire una comunità globale di sicurezza per tutti».
Le isole del Pacifico, fra timori e speranze
È innegabile che la partita nel Pacifico giochi un ruolo di vitale importanza per le ridefinizioni delle nuove aree di influenza e di leadership mondiale. Tuttavia, non tutti gli stati del Pacifico, come in questi giorni si è dimostrato, sono così favorevoli a questo nuovo indirizzo politico, facendo difficoltà ad immaginare Pechino sotto le vesti del buon samaritano. L’invito a riflettere sulle conseguenze del nuovo patto cinese, proposto dal tour diplomatico di Penny Wong, ha fatto effetto. Il presidente della Micronesia, David Panuelo, si è detto preoccupato per i piani di espansione cinese nel Pacifico, che minacciano la stabilità e costituiscono i primi passi verso una nuova «guerra fredda» tra Pechino e l’Occidente. Anche Whipps, presidente di Palau, ha mostrato il disagio della propria nazione per continua presenza di navi cinesi nella regione, definendo l’accordo potenziale con il gigante d’oriente un rischio per la sicurezza degli arcipelaghi.
Daniele De Camillis