Prosegue da quasi una settimana la massiccia sollevazione di massa in Iran, sotto la coraggiosa guida delle donne. Ampiamente sostenuta da una grande parte della popolazione del paese, sia maschile che femminile, la rivolta sembra aver assunto proporzioni gigantesche, alzando la preoccupazione dell’establishment della Repubblica islamica e creando invece speranza e ottimismo fra coloro che sognano un radicale cambiamento nel Paese.
La morte di Mahsa, l’onda della ribellione.
La protesta è iniziata a causa della morte di una giovane donna di origini curde Mahsa Amini, deceduta dopo tre giorni di coma, a causa dei maltrattamenti subiti dalla polizia morale (Gasht-e Ershad) a Teheran. La ragazza, di soli 22 anni, era stata infatti accusata di non rispettare la legge sul corretto utilizzo dell’hijab (il velo) e per questo trattenuta in una stazione della polizia. In un primo momento la Fars, agenzia di stampo filogovernativa, aveva liquidato la faccenda supponendo che la morte della giovane fosse dipesa da un ipotetico infarto causato da malattie pregresse. La polizia, a tal fine, ha diffuso un video in cui si vede la giovane donna accasciarsi al suolo, durante le negoziazioni per il rilascio, a causa di un improvviso malore. Nondimeno, il corpo tumefatto della giovane e il rapporto di alcuni coraggiosi sanitari dell’ospedale di Kasra, hanno lasciato pochi dubbi sulle sorti della giovane, arrivata in ospedale già in uno stato di morte celebrale.
La risonanza mediatica, interna al paese quanto al di fuori di esso, è stata immediata. Moltissime donne sono scese in piazza, hanno bruciato i loro veli e tagliato i capelli, hanno indetto manifestazioni e affrontato per strada tutti i violenti tentativi di repressione. La sollevazione femminile ha infiammato il paese tanto che la lunga storia di discriminazione, sofferenza e soprusi delle donne iraniane sembra aver trovato, nella povera storia di Mahsa Amini, un simbolico ma decisivo punto di rottura. La ribellione è riuscita infatti ad infiammare l’intero paese, allargandosi ai vari strati della società, dai più agiati ai meno abbienti, creando le condizioni per l’inizio di una vera propria rivoluzione sociale e politica che, partendo dal basso, rivendica per sé quelle istanze di rinnovamento e liberalizzazione da lungo tempo agognate dai cittadini iraniani, specialmente dalle donne. Molte le testate giornalistiche hanno definendo la situazione una “pre-rivoluzione”, sollecitando l’attenzione di tutti sulle future ed imminenti sorti del Paese.
Le speranze del cambiamento
«Non è una rivolta di quelle che ormai si verificano ogni anno: stavolta ha le caratteristiche di una rivoluzione» commenta entusiasta Fariborz Kamkari, regista curdo – iraniano, che con i suoi film, come i fiori di Kirkuk (2010) ha da sempre denunciato le discriminazioni subite dal popolo curdo.
Secondo il regista, infatti, ci sono ben quattro motivi per considerare le rivolte come l’inizio di una rivoluzione: «Primo, per la prima volta in 43 anni riguarda tutto il paese e non solo una sua parte, che sia il Kurdistan o il sud est a maggioranza araba, come accaduto due settimane fa, proteste subito sedate. Secondo, partecipano tutte le classi sociali: in passato abbiamo assistito a proteste della piccola borghesia, altre volte della classe bassa. Stavolta partecipano poveri, lavoratori, classe media. Terzo, non ci si è mobilitati per motivi economici, la gente sta chiedendo libertà. Quarto, è completamente fuori dal controllo di qualsiasi organizzazione interna al regime che per anni ha mostrato una doppia faccia, riformisti contro conservatori. Oggi la rivolta è contro il regime in sé e lo si capisce dalla reazione compatta di tutte le forze politiche».
Circolano su internet, nonostante gli impedimenti posti dal regime, gli inquietanti video delle violenze in corso. Circa una trentina sono ad oggi le vittime, mentre più di quindici le città coinvolte, fra qui anche le conservatrici piazze di Qom e Mashad, “città sante” per il regime sorto dalla Rivoluzione di Khomeini del 1979. Il governo, nel tentativo di arginare la marea in corso, ha imposto una parziale chiusura dei Social ed un controllo serrato alle comunicazioni di rete, limitando l’accesso a Instagram e a WhatsApp, chiudendo i provider locali e l’accesso alle piattaforme di Meta, bloccando i siti istituzionali per proteggerli da attacchi informatici scagliati dal collettivo di hacker Anonymous, che ha risposto all’appello dei manifestanti.
I simboli che contano
Il velo che brucia, simbolo tra i più iconici per l’ideologia del regime estremista, le bandiera lacerata e il grido della protesta «Marg bar dictator» (Morte al dittatore), con riferimento al Leader Supremo, Ali Khamenei, sono tutti inequivocabili segni di un malessere profondo vissuto all’interno del Paese che, sotto la guida dell’intraprendenza femminile, sembra riuscire a riattivare nella popolazione civile quella sopita aspirazione di libertà da troppo tempo affossata da un regime oscurantista ed intransigente.
«Bruciare il velo è bruciare la bandiera: questo regime ha usato il velo come rappresentazione della propria ideologia. Oggi la gente dice no all’intero sistema politico del paese, alla natura stessa della Repubblica islamica» dichiara speranzoso Kamkari.
Ammesso che l’incendio in corso nel Paese non si riveli alla fine l’ennesimo fuoco fatuo, la Repubblica islamica sembra dunque essere giunta alle soglie di una svolta, chiamata a giocare una partita per la propria stessa sopravvivenza, testando la propria capacità di mutamento e di adattamento alle spinte e alle torsioni provocate dalla insoddisfatta popolazione civile, sicuri del fatto che tutto ciò che non si piega, prima o poi, finisce spezzato.
Daniele De Camillis