Decine di vittime fra i civili, fra cui tra bambini. È questo il conto dei morti dopo i raid aerei avvenuti su Makallè, capitale della regione settentrionale del Tigrai al confine tra Etiopia ed Eritrea, A riportare la notizia dell’attacco è stato per primo l’Onu, confermata solo in seguito dai media etiopi. Le incursioni aeree hanno colpito obiettivi strategici, quali mezzi e apparecchiature di comunicazione, usate dal Fronte popolare di liberazione del Tigrai, Tplf, con il quale il governo centrale è in guerra da circa un anno. Malgrado inizialmente un portavoce del governo avesse smentito gli attacchi, lo stesso primo ministro Abiy Ahmed con un nota ha confermato il «successo» delle misure prese «per prevenire vittime civili durante gli attacchi aerei». Addis Abeba ha sostenuto inoltre che il Tplf stia strumentalizzando l’attacco al fine di nascondere le atroci aggressioni che avrebbe compiuto nelle regioni limitrofe. Solo nel villaggio di Wuchale, secondo fonti locali, confermate dai portavoce di Ahmed, sarebbero state trucidate 30 persone innocenti. Il ministro di Stato per i servizi di comunicazione, Legesse Tulu, durante una conferenza stampa, ha dichiarato che l’offensiva del Tplf «non è focalizzata su obiettivi militari, ma prende di mira migliaia di civili, inclusi bambini, donne, anziani, veterani di guerra e anziani»
Le radici del conflitto
Il conflitto, in corso da un anno, ha in realtà radici profonde. Il preludio del contrasto si ha quando, nel 2018, viene eletto primo ministro del governo federale Abiy Ahmed Ali, insignito, l’anno seguente, del premier Nobel per la pace per il suo impegno al mantenimento di rapporti pacifici con l’Eritrea, con la quale il suo paese stava conducendo, dal 1998, una sanguinosissima guerra. Tuttavia, il suo impegno per il mantenimento e il rafforzamento dell’unità nazionale ha portato molti critici, fra cui molti tigrini favorevoli alla guerra con l’Eritrea, a ritenere il suo tentativo di superare le istanze locali come una minaccia alla propria autonomia regionale. Con la scelta di sciogliere il Fronte Democratico Rivoluzionario del Popolo Etiope, Eprdf, la coalizione di assoluta maggioranza in Etiopia dal 1988, Ahmed ha riunito i vari partiti di maggioranza in un solo nuovo partito, denominato della Prosperità, Pp, con il quale il Tplf non ha voluto avere niente a che fare. Il rifiuto di aderire alla nuova formazione politica ha portato l’élite tigrina, precedentemente egemone nel paese, ad essere relegata ai margini della vita politica nazionale, venendo esclusa dall’esecutivo. Il filo sottilissimo che teneva ancora unito la regione settentrionale del Tigrai con la capitale è stato reciso quando il governo federale ha deciso di posticipare, a causa della pandemia, le elezioni previste ad agosto del 2020. Il Fronte popolare di liberazione del Tigrai ha definito scaduto il mandato di Ahmed, organizzando elezioni autonome nella regione, definite “illegali” dal governo centrale. L’occupazione di alcune basi militari e l’attacco contro la guarnigione militare di Makallè ha portato Addis Abeba a definire “ribelli” i militanti del Tplf e ad iniziare l’offensiva militare contro tale frangia secessionista.
Il rischio per gli equilibri in Corno d’Africa
Ad oggi il conflitto sembra essere ancora lontano da una sua conclusione e rischia di diventare una polveriera nella regione del Corno d’Africa, i cui delicati equilibri interni con difficoltà reggeranno l’urto di un conflitto etnico-regionale. Scontri sono stati segnalati al confine con l’instabile Sudan, sottoposto anche esso ad una non facile transizione politica, e la rivale Eritrea. L’élite del Tigrai, favorevoli al guerra contro l’Eritrea, ha sospettato fin da subito un coinvolgimento di Asmara nel conflitto, intenzionata ad usare a proprio favore la situazione e ad assestare un colpo micidiale al suo antico rivale. Ma fino alla scorsa primavera Asmara aveva negato con forza un suo diretto coinvolgimento a favore del governo federale etiope. D’altronde la chiusura della regione del Tigrai, blindata per tutti, compresi gli aiuti internazionali e le ong, ha reso ancora più drammatica la situazione per la popolazione civile e sempre più difficile reperire notizie sull’andamento del conflitto. «Ricordiamo ancora una volta a tutte la parti in guerra i loro obblighi previsti dal diritto umanitario internazionale di proteggere i civili e le infrastrutture civili» ha ribadito Jens Laerke, portavoce dell’ufficio Onu per gli affari umanitari, mentre l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Michelle Bachelet, in più occasioni ha messo in guardia la comunità internazionale su quanto sta avvenendo nella regione, affermando che molte prove sono state raccolte sulle «molteplici e gravi violazioni dei diritti umani», paventando la minaccia che tale conflitto possa «estendersi all’intero Corno d’Africa».
Daniele De Camillis