Israele e Palestina, antagonisti ormai quasi per antonomasia sembrano destinati ad un logorante conflitto senza fine. L’elezione presidenziale di Isaac Herzog, leader laburista dal 2013 al 2017, potrebbero, forse, portare ad un cambiamento. La pace con la Palestina, infatti, è stata al centro del programma laburista di Herzog. «Sarò il presidente di tutti. – ha dichiarato il neopresidente dopo le elezioni – Darò ascolto a qualsiasi posizione e a qualsiasi persona» sottolineando la necessità di costruire «ponti e accordi» all’interno della società israeliana. Giungono a denti stretti le congratulazioni per l’elezione da parte del premier Netanyahu la cui era, dopo 12 anni di governo, sembra ormai prossima alla fine. Le ultime elezioni del 26 maggio si sono concluse con la parziale vittoria del partito conservatore, Likud, al quale però mancano comunque i numeri necessari per la formazione di un esecutivo. Il compito di formare un nuovo governo è passato dunque a Yair Lapid del partito centrista Yesh Atid. La coalizione formata da otto partiti di opposizione, dalla destra di Yamina alla sinistra di Meretz, passando per i Laburisti e i centristi, ha dichiarato di aver trovato un accordo di governo e di essere pronta a chiedere la fiducia del parlamento. Se la votazione della prossima settimana dovesse andare a buon fine, si insedierà un governo in cui parteciperà, per la prima volta nella storia di Israele, anche il partito arabo Lista Araba Unita, presente nella coalizione. Un vento di possibile cambiamento quindi quello che soffia ad Israele, per quanto sia assai improbabile, ovviamente, una risoluzione rapida e definitiva del conflitto.
Gerusalemme è il pomo della discordia
Nessun accordo, nessuna risoluzione sarà definitiva fino a quando non si risolverà la contesa sulla capitale: Gerusalemme. La città rimane la chiave per portare una svolta al secolare contrasto. Sembra esserne convinto padre Ibrahim Faltas, sacerdote francescano della Custodia di Terra Santa. Nel 2002 egli fu testimone diretto dell’assedio armato condotto dall’esercito israeliano contro la Basilica della Natività di Betlemme, allora rifugio di militanti palestinesi. «Qui tutti sanno che la chiave della pace e della guerra è Gerusalemme» afferma convinto il frate di origine egiziana. «ogni tentativo autentico di sciogliere i nodi del conflitto – prosegue padre Feltas – deve partire dal riconoscimento della natura unica e imparagonabile della Città Santa».
Una città contesa
Anche l’attuale escalation di violenze ha avuto inizio tra i sobborghi antichi di Gerusalemme. Nel quartiere di Sheikh Jarrah una trentina di famiglie palestinesi, residenti lì da oltre 70 anni, sono state costrette, per ordine di un tribunale israeliano, a lasciare le proprie abitazioni. Queste erano state concesse ai palestinesi una settantina di anni fa, quando, alla fine degli anni 50, una decisione del governo giordano, appoggiato dall’Onu, concesse alle famiglie di rifugiati palestinesi in fuga da Israele, vari terreni e proprietà situate nella parte orientale della città. Grazie ad una legge israeliana, promulgata negli anni 70, molti nuovi coloni ebrei rivendicarono e rivendicano tutt’oggi il possesso di molte abitazioni e possedimenti prima concessi ai palestinesi. Il caso attuale del quartiere di Sheikh Jarrah né un esempio. Secondo la legge israeliana si consente agli eredi dei profughi israeliani, precedenti al 1948, di rivendicare le terre e le proprietà espropriate in seguito alla guerra e all’esilio. Lo stesso diritto, però, è negato alla popolazione palestinese. Nonostante gli accordi di Oslo del 1993 obblighino Israele al mantenimento dei diritti fondamentali dei palestinesi, abitanti i territori occupati, lo stato ebraico non si è mai veramente preoccupata di garantire i diritti umanitari, sanitari e abitativi, della popolazione palestinese lì residente, ma ha proseguito, attraverso espropriazioni e fondazione di nuove colonie, la propria politica espansionistica ai danni della Palestina. La gestione della campagna vaccinale ha mostrato l’asimmetrica divisione della popolazione, con la componente israeliana vaccinata in tempi record, e con quella palestinese in difficoltà a reperire le prime dosi di vaccino.
La storia recente della città santa.
Gerusalemme infatti tra il 1949, anno del primo conflitto arabo-israeliano, e il 1967, guerra dei sei giorni, era divisa in due aree di influenza. La parte orientale, a maggioranza araba e musulmana, era sottoposta al controllo giordano, la parte occidentale, invece, sotto quello israeliano. La divisione avvenne nonostante la diversa risoluzione delle Nazioni Unite. L’UNSCOP (United Nations Special Committee on Palestine), dal 1947, aveva, infatti, destinato a Gerusalemme lo status di «corpum separatum» dalle due realtà nazionali pianificate nella sua risoluzione, una ebraica e una araba, ponendo la città santa sotto controllo internazionale. Le cose andarono diversamente e gli eserciti in campo imposero la divisione della città in due aree di influenza. Tuttavia, dopo la guerra dei sei giorni, nel 1967, Israele riuscì a riconquistare per intero la città, portando anche la parte orientale sotto il suo dominio. Fin dal 1950 lo stato ebraico ha proclamato Gerusalemme come propria capitale, insediando, nella parte occidentale della città i propri centri amministrativi e dirigenziali. Con la conquista della parte orientale, la città santa venne dichiarata capitale «unita e indivisibile» nel 1980 dalla Knesset, nonostante le condanne e il mancato riconoscimento da parte della comunità internazionale e dall’ONU. Anche la Corte internazionale di giustizia infatti continua a definire i territori orientali della città, come «territori occupati» da Israele, non riconoscendone la legittimità. Solo gli USA di recente, durante l’amministrazione Trump, hanno trasferito la propria ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme, riconoscendo di fatto la città santa come capitale dello stato israeliano, sollevando aspre polemiche nei dei paesi arabi. Anche l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP) rivendica Gerusalemme come capitale di un futuro Stato palestinese, rendendo la città santa un punto cruciale nel processo di pace. Molti negoziati, fra cui il famoso summit di Camp David del 2000, si sono arenati nell’incapacità di raggiungere un accordo sulla sovranità della città.
Gerusalemme: il centro della pace
«Lo abbiamo già visto e detto cento volte: quando si tocca Gerusalemme, dilagano fatalmente violenze e dolore, che travolgono tutti. Il cuore del conflitto, come sempre, è la Città Santa. Come riconosceva San Giovanni Paolo II, finché non ci sarà pace a Gerusalemme, non ci sarà pace nel resto del mondo» – ripete padre Ibrahim Faltas, sottolineando come «Gerusalemme» non sia una città come le altre: «Non è gemellata con nessun altro centro urbano, perché per definizione non ha, non può avere città gemelle. Non potrà mai essere la città appartenente a una sola parte, a un solo Stato, a un solo gruppo religioso. Tutti i tentativi di eliminare i fattori della sua identità plurale attraverso le politiche dei fatti compiuti, portate avanti anche in maniera brutale, la sfigurano, e sono comunque destinati a fallire. Gerusalemme è la città-madre di tutti, sarà per sempre nel cuore delle tre comunità di fede abramitiche. L’unica via per risolvere i problemi sarà quella di trattarli al tavolo dei negoziati, senza rimuovere niente, e con il necessario coinvolgimento della comunità internazionale, che non può continuare a essere assente e a voltarsi dall’altra parte, ogni volta che la violenza esplode a Gerusalemme e da lì si propaga nel mondo».
Daniele De Camillis