G7: un’alternativa al “secolo cinese”
Dall’11 al 13 giugno si è riunito il quarantasettesimo vertice del G7. L’organizzazione internazionale riunisce i rappresentanti dei sette paesi ritenuti più economicamente avanzati del pianeta, ad esclusione della Cina, per discutere di questioni politiche ed economiche globali. A Carbis Bay, in Cornovaglia, i sette paesi membri: Usa, Canada, Germania, Francia, Regno Unito (paese ospitante), Italia e Unione Europea hanno discusso di tematiche legate ai vaccini e alla gestione della pandemia, all’ambiente, all’economia globale, alla ripresa post-pandemica e ai conflitti geopolitici attuali. Emerge dal summit l’impegno per la prevenzione di nuove pandemie globali ed un rinnovato slancio a portare a termine il piano vaccinale entro il 2022, con la promessa di oltre 1 miliardo di dosi di vaccini destinati ai paesi in via di sviluppo. Tuttavia, vaghe sono rimaste le promesse sul clima e sulla costruzione di una nuova politica economica più inclusiva ed equa, richiesta dai paesi più poveri e in difficoltà.
L’Aquila contro il Dragone
Centrale, invece, nel summit è stata la discussione sul nuovo ruolo della Cina nel panorama politico globale. Il gigante orientale è stato apertamente criticato dall’organizzazione internazionale: «nessuno disputa che la Cina ha diritto di essere una grande economia – afferma Mario Draghi nella conferenza alla fine del vertice – ma quello che è stato messo in discussione sono i modi che utilizza, come le detenzioni coercitive». “Autocrazia” è l’appellativo utilizzato per riferirsi al colosso d’Oriente. La linea più dura è stata rappresentata dagli americani, che con la Cina, giocano la partita per la leadership mondiale. Una nuova cortina di ferro sembra calare sulla comunità internazionale e Joe Biden sembra pronto a giocare la partita. L’inquilino della Casa Bianca tenta di ricostruire l’impero globale americano, riallacciando le vecchie alleanze, incrinatesi durante l’isolazionismo dell’amministrazione trumpiana. Il “gruppo dei 7”, composto esclusivamente da potenze occidentali, fatta eccezione per il Giappone, anch’esso però baluardo americano nel Pacifico, ha rappresentato un primo passo per il consolidamento della posizione americana nella geopolitica mondiale. Facile per Biden è stato riesumare l’antica retorica delle potenze occidentali democratiche, opposte al nemico orientale, autocratico e oscurantista. La proposta, infatti, è un’alternativa «democratica», quindi americana, all’influenza cinese, attraverso un ingente programma di investimenti e infrastrutture, destinate ai paesi in via di sviluppo, da contrapporre all’immenso progetto strategico cinese della Nuova via della Seta, Belt and Road Initiative, (BRI). Il comunicato finale del summit invita la Cina al rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, troppo spesso ignorati da Pechino soprattutto nei recenti casi di Hong Kong e nello Xianjang, patria dell’etnia uiguri, che da tempo chiede maggiore autonomia.
Pechino risponde, definendo il vertice: «una chiara mossa politica», tramite la sua ambasciata a Londra, affermando: «Il G7 sfrutta le questioni relative allo Xinjiang per condurre una manipolazione politica e interferire negli affari interni della Cina, cosa a cui ci opponiamo fermamente», definendo le insinuazioni del summit: «bugie, voci e accuse infondate», ricordando a tutto il mondo che: «sono terminati i giorni in cui le decisioni globali vengono dettate da un piccolo gruppo di Paesi». Delicata la posizione dell’Italia, la quale avendo già aderito al progetto cinese della BRI, ora si dichiara pronta a «rivedere la propria posizione sulla Via della Seta», ritrovandosi, ora come allora, ad essere l’ago conteso di una bilancia fra due superpotenze.
Daniele De Camillis