Riportiamo integralmente il testo dell’orazione ufficiale conclusiva delle celebrazioni alessandrine per la giornata del 25 aprile, tenuta dal prof. Giorgio Barberis, docente dell’Università del Piemonte Orientale, al monumento ai Caduti (Giardini Pubblici di Alessandria).
«Buongiorno a tutte e a tutti. È un piacere e un onore essere qui con voi a commemorare il 74° anniversario della Liberazione, ed è con grande emozione che mi accingo a pronunciare l’orazione ufficiale.
Rivolgo anzitutto un saluto e un sentito ringraziamento ai partigiani, alle amiche e agli amici, direi anzi alle compagne e ai compagni dell’ANPI, all’Istituto per la Storia della Resistenza, alle Associazioni democratiche tutte, alle cittadine e ai cittadini presenti, alle Istituzioni, alle Autorità civili, militari e religiose, al Prefetto e al Sindaco di Alessandria. Inizierò proprio da qui. È fondamentale che tutte, tutte le Istituzioni siano fortemente ancorate ai valori dell’antifascismo e della partecipazione democratica.
Non sempre, purtroppo, ciò accade. Talvolta qualcuno, perfino in posizioni apicali, mostra fastidio per la presunta retorica di questi momenti di ricordo e celebrazione – come se si potesse vivere in modo consapevole senza memoria storica [un punto su cui a breve mi soffermerò] -, oppure auspica celebrazioni che non siano “di parte”. E quale sarebbe – mi chiedo – la ragione di questa del tutto infondata “equidistanza”? Come si può celebrare il 25 aprile “dall’altra parte”?! Dalla parte della dittatura fascista, della violenza, del razzismo, della morte?!
[Ma procediamo con ordine] Ripercorrere e ricordare, a distanza di decenni, quanto accadde in Italia e in Europa a metà degli anni Quaranta del Novecento, non è soltanto un dovere, ma un vero e proprio obbligo morale. Al doveroso riconoscimento per il coraggio di chi ha eroicamente combattuto contro il fascismo ed è caduto in nome della libertà e della giustizia, si accompagna la necessità pressante di riaffermare con forza e chiarezza, ogni giorno, i valori dell’antifascismo, che sono a fondamento della nostra Repubblica e della nostra Costituzione, un prerequisito irrinunciabile della vita democratica del Paese.
Senza memoria non c’è futuro. Sapere da dove veniamo è fondamentale per comprendere dove possiamo e dove vogliamo andare. Questo è uno dei punti centrali della mia riflessione odierna, e lo sottolineo nuovamente: per decidere verso quale direzione orientarsi, e reggere virtuosamente al cambiamento, bisogna avere chiaro da dove si viene, quali dinamiche stanno alle nostre spalle, quali scelte, e quali errori, sono stati fatti in passato.
E invece dal 1989 in poi, e ancor prima con le retoriche del post-moderno – è come se vivessimo in un eterno presente. Ci hanno detto che non ci sono più alternative (ricorderete lo slogan di Margareth Thatcher che recitava esattamente così: There is not alternative); hanno cercato di contenere e cancellare lo spirito critico di fronte a un pensiero unico omologato e omologante. Ma era una mistificazione. Lo scenario globale muta a velocità vorticosa, e mai come oggi la critica, la capacità di pensare ed agire in direzione di un altro mondo possibile diviene fondamentale.
In tal senso, la prospettiva storica è imprescindibile. Scriveva giustamente Primo Levi: Ricordate che quello che è stato, in futuro, con il sonno della ragione e la mancanza di memoria, potrebbe ripetersi e verificarsi nuovamente. E senza vaglio critico del passato, senza profondità storica, appunto, le conseguenze sono nefaste. Ogni tesi, anche se non argomentata, è ammessa nel dibattito pubblico. I concetti si svaporano. Le certezze si sfaldano. I valori si confondono. Ecco che si può dire perfino che Mussolini ha fatto cose buone. Ecco che i fascisti rialzano la testa nel nostro Paese, e in tutta Europa e per il globo intero [abbiamo appena ricordato il sacrificio di un pilota brasiliano; chissà cosa pensa Bolsonaro in proposito..]; xenofobia e razzismo sono pericolosamente usciti allo scoperto, a volte con nuovi linguaggi e nuove strategie, altre volte scimmiottando la retorica dei regimi totalitari novecenteschi.
Torniamo allora alla storia. Che cosa è stato e che cos’è oggi il fascismo? Il dibattito storiografico sul tema è ampio, vivace e ancora aperto. Non abbiamo tempo di ripercorrerlo, neppure sommariamente. Basti ricordare che c’è chi, come il nostro illustre concittadino Umberto Eco, ha parlato di un fascismo “eterno”, di un’abitudine culturale, di un insieme di istinti, passioni e idee che hanno una valenza meta-storica, quasi una categoria dello spirito, ossia un modo di pensare e di sentire che è destinato a durare, a ripresentarsi sotto molteplici forme, e che richiede costantemente la nostra vigilanza democratica e antifascista. Altri, invece [come ad esempio Emilio Gentile], circoscrivono il fenomeno alla sua realtà storicamente determinata.
Non ci sono dubbi, però, sulla sua matrice totalitaria (per quanto imperfetta), sui caratteri dittatoriali e liberticidi del regime mussoliniano, nato in conseguenza di una spaventosa guerra mondiale, da una violenta reazione antiproletaria, sul cadavere di Matteotti e dei martiri della libertà, e dissoltosi in un secondo conflitto globale ancor più devastante, in un epilogo vergognoso e in un Paese distrutto, annichilito. L’autobiografia di una nazione, per citare il Piero Gobetti del 1922, fragile, arretrata, immatura, sottomessa, impaurita. Un Paese piegato, quindi, capace però di un pronto riscatto, grazie proprio alle partigiane e ai partigiani che hanno scelto di stare dalla parte giusta. Che hanno combattuto, sofferto e vinto.
Da loro sono nate la Repubblica e la Costituzione, faro- sottolineo faro! – della nostra vita civile e sociale, che dobbiamo difendere, preservare e attuare nel modo più profondo e compiuto. I valori della libertà, dell’uguaglianza – che tendiamo a dimenticare in un mondo attraversato da enormi sperequazioni, dove una decina di individui possiede la stessa ricchezza della metà più povera del pianeta, ossia tre miliardi e mezzo di persone [per inciso, è questo, a mio avviso, il problema più grave del nostro tempo] -, i valori della giustizia sociale, della dignità e dell’umanità di tutte e tutti, nessuno escluso, devono essere al centro della nostra condotta quotidiana. Non dovrebbe essere solo un’affermazione retorica, ma un impegno concreto e costante.
Diceva Piero Calamandrei in un suo celebre discorso ai giovani pronunciato nel 1955: La nostra Costituzione è in parte una realtà, ma soltanto in parte. In parte è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno, un lavoro da compiere. E quanto lavoro, in effetti, abbiamo ancora da fare!
Ecco che cosa celebriamo il 25 aprile. Celebriamo una vittoria militare contro le forze nazi-fasciste [grazie a chi il mitra lo sapeva usare davvero…]. Celebriamo una vittoria politica, che si concretizza appunto nella Repubblica e nella Costituzione. Celebriamo soprattutto una vittoria etica, un riscatto morale. La scelta di chi ha saputo sottrarsi al giogo di una legge ingiusta, dell’arbitrio elevato a sistema di potere, della dittatura. Come noto, il rapporto tra giustizia e diritto è particolarmente delicato e controverso. Ma non vi è alcun dubbio che ci siano valori superiori a ogni legge positiva. A un comando ingiusto si deve disobbedire! I partigiani ce l’hanno insegnato.
Noi siamo fortunati perché abbiamo quel faro: la nostra Costituzione. Ed è proprio la fedeltà ai principi fondamentali sanciti nella Carta costituzionale (e naturalmente nella Dichiarazione universale dei diritti umani, che ha compiuto settant’anni, ma è ancor ben lungi dall’essere rispettata in ogni sua parte), è questa fedeltà – dicevo – che impone oggi l’opposizione ai muri, ai porti chiusi, al razzismo, alla cattiveria dilagante, al rancore, all’odio in ogni sua forma. Che impone, ora e sempre, il rifiuto del fascismo, di ogni fascismo, quale che sia la sembianza che assume.
Un ultimo passaggio su questo punto, con lo sguardo rivolto all’Italia. La cronaca quotidiana ci pone di fronte alla recrudescenza di fenomeni culturali e politici riconducibili all’estrema destra. Sigle più o meno note, come Forza Nuova, CasaPound, Lealtà Azione, Veneto Fronte Skinheads, la galassia nazi-rock, etc. [non vorrei continuare oltre con questo catalogo dell’orrore], con i loro militanti, tornano a infestare le strade delle nostre città a cento anni dalla fondazione dei Fasci di combattimento, sfruttando la rabbia degli impoveriti, degli sconfitti della globalizzazione, il disagio urbano e scatenando una disumana guerra tra poveri [come ha giustamente stigmatizzato, con il candore e la forza dei suoi 15 anni, il giovane Simone a Torre Maura].
Si tratta con tutta evidenza di un fenomeno estremamente preoccupante, che sembra crescere di giorno in giorno. L’assalto ai rifugiati e ai migranti (nei confronti dei quali è stato compiuto un perverso capolavoro di mistificazione: la rabbia degli impoveriti verso i subalterni, e non verso il privilegio), l’attacco ai più deboli, prima fra tutti i rom, le minacce ai giornalisti, fino agli ultimi oltraggiosi casi di questi giorni, come il rogo a Vighignolo della statua dedicata alla staffetta partigiana Giulia Lombardi, o il demenziale striscione degli ultras neo-fascisti laziali esposto a Milano vicino a piazzale Loreto. Occorre allora una vasta, ferma e profonda risposta in nome dell’antifascismo, appunto. Non confondiamo i piani (ossia lasciamo fuori dal discorso la polemica politica contingente), e non sottovalutiamo il pericolo. Bisogna riflettere in profondità, comprendere ciò che sta accadendo, ridare senso alle parole e agire subito, insieme, su diversi piani!
Anzitutto, il fascismo, la sua apologia, è un reato perseguibile penalmente. Basti il riferimento alla legge Scelba del giugno 1952, attuativa della XII disposizione transitoria della Costituzione italiana. Perché, allora [e qui mi rivolgo nuovamente alle autorità competenti] non sciogliere i partiti e i movimenti esplicitamente neo-fascisti?! Procediamo subito, prima che sia troppo tardi. Certo, la risposta giuridica non può bastare. Anche perché, accanto a un fascismo disvelato e sguaiato, si fa strada un neo-nazionalismo più subdolo, una pericolosa deriva autoritaria, un fastidio crescente, in nome di una fantomatica disintermediazione, verso ogni forma di “mediazione” sociale e politica, appunto; un’evidente primitivizzazione dell’agire politico che porta con sé la crisi, per alcuni irreversibile, della democrazia rappresentativa.
Certi tratti essenziali propri dell’ideologia fascista trovano molto spazio nel dibattito pubblico (e, ahinoi, anche nel sentire comune): la paura della differenza, del diverso, la ricerca ossessiva di un nemico, il fastidio verso l’informazione libera, il rifiuto della critica, la devozione al capo. Occorre dunque una risposta convincente sul piano politico e sul piano culturale. Bisogna ridare forza e slancio alla partecipazione democratica. Occorre trovare soluzioni concrete al disagio e alla frustrazione del popolo [Non certo più potere ai prefetti trasformati in podestà]. Porre un argine al neoliberismo e alla logica del profitto senza freni e senza limiti. Risignificare il lessico politico della nostra epoca confusa. Pensare forse a un nuovo umanesimo radicale e inclusivo, lontano dalle retoriche dello scontro di civiltà e dal monologo dell’Occidente, e capace di coniugare le diversità in una polifonia virtuosa.
Riservando però ad altra sede la riflessione sulle possibili alternative strutturali di società, concludo col ribadire il punto fondamentale: è necessario soprattutto dare nuova forza e nuovo slancio ai valori fondanti della nostra comunità, nata dalla Resistenza antifascista, dalla lotta partigiana, dalla sete di libertà, che – per citare ancora Calamandrei – è come l’aria. Ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare.
Per questo è così importante festeggiare il 25 aprile. Scriveva il nostro illustre concittadino, già richiamato in precedenza, che “libertà e liberazione sono un compito che non finisce mai”. Aveva ragione. Il nostro sforzo, la nostra lotta, devono continuare. Proviamo a scrivere insieme, coinvolgendo le nuove generazioni, una diversa autobiografia della nazione. E continuiamo a cantare Bella ciao, l’inno di chi lotta e di chi resiste.
E allora buona lotta e buona liberazione a tutte e a tutti noi!»
Giorgio Barberis