Secondo il decreto n. 308 del Ministero per la Solidarietà Sociale è un’unità di tipo familiare con sede nelle civili abitazioni avente come scopo l’accoglienza
Si differenzia dalla Comunità in quanto vi è la presenza di una coppia genitoriale
Secondo il Decreto n. 308, del Ministero per la Solidarietà Sociale (21 maggio 2001), una Casa Famiglia è “un’unità di tipo familiare con sede nelle civili abitazioni”, avente come scopo l’accoglienza di disabili, persone con problematiche psico-sociali, minori, anziani e persone affette da AIDS. Molte Case Famiglia si contraddistinguono per l’accoglienza di minori in situazioni di disagio e non per l’accettazione di tipologie di problematiche sociali, come le persone affette da AIDS.
Lo scopo di tali unità di tipo familiare è fornire ai minori, interventi socio-assistenziali ed educativi, integrati o sostitutivi della famiglia. Sono l’alternativa a quelli che un tempo venivano definiti “orfanotrofi”, ma, a differenza di questi, dovrebbero possedere alcune caratteristiche in grado di renderle più simili ad una vera e propria unità familiare. I fattori che rendono una Casa Famiglia simile ad un vero nucleo familiare sono: la presenza di due figure parentali (madre e padre); la struttura dell’abitazione, interamente simile ad una comune casa; il numero contenuto di persone accolte, per far sì che i rapporti tra i vari membri siano come quelli di una vera famiglia; l’inserimento dell’abitazione in un territorio urbano. In genere, l’accoglienza massima per ogni Casa Famiglia è di sei minori (ai quali si aggiungono eventuali figli minorenni della coppia che la gestisce) e non deve superare il numero massimo di otto membri, ammesso che non vi siano dei fratelli che è logico non separare.
La Casa Famiglia si differenzia dalla Comunità in quanto vi è la presenza di una coppia, con o senza figli, che accoglie nella propria abitazione minori in situazioni di disagio. Se nessuno dei due coniugi possiede i requisiti professionali richiesti, viene loro affiancata la presenza di un personale specializzato.
Ogni minore dovrebbe essere aiutato ad entrare nell’ottica di rientrare in famiglia o, comunque, di mantenere i rapporti con essa, per favorire delle soluzioni in grado di garantire al bambino/ragazzo un corretto percorso di vita. In tal modo la Casa Famiglia può essere interpretata come momento di passaggio.
L’obiettivo principale di queste unità familiari è realizzare l’interesse delle persone accolte, ponendo l’attenzione su di esse e non incentrando la quotidianità sulle loro situazioni di disagio, o sulla terapia.
Sovente, però, il destino di un bambino o un ragazzo che cresce in una Casa Famiglia è quello di passare da una all’altra, fino alla maggiore età. Capita spesso, infatti, che i centri stessi ambiscano a prenderli in custodia per ricevere la retta giornaliera che va dai 70, ai 120 euro.
È questo il motivo che, troppo sovente, impedisce ai minori di essere adottati o di tornare nella famiglia di origine.
Il risultato di questi “scherzi del destino” sono minori che si trovano costretti a vivere una vita resa ancora più difficile dalle strutture che, invece, dovrebbero aiutarli.
Giada Guzzon
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Kelly racconta la sua comunità
Kelly, 18 anni, vive in comunità da quando ne aveva 15, per problemi familiari. “La vita è dura, ma io vado comunque avanti” afferma lei con lo sguardo fermo e deciso di chi vuole lasciare il passato alle spalle.
Quanti siete in comunità? È difficile vivere insieme a tante persone?
Siamo in 10, maschi e femmine, io sono in camera da sola ma di solito ci sono due persone per stanza. Difficile? Si, lo è ma pian piano ci fai l’abitudine e poi dipende dal carattere di ognuno di noi, alcuni interagiscono facilmente mentre altri hanno bisogno di più tempo. Ogni settimana ci viene data una paghetta e ognuno di noi si divide i compiti, c’è chi deve lavare i piatti o chi deve pulire, dipende.
Come sono i rapporti fra voi e gli educatori?
Discussioni ce ne sono ma mi trovo abbastanza bene, insomma non mi posso lamentare. Abbiamo dieci educatori che fanno i turni, c’è chi viene al mattino, chi al pomeriggio e infine alla sera, con i più piccoli sono più comprensivi mentre per noi diciamo “grandi” si aspettano un certo comportamento e più maturità e segnano a ogni turno ciò che è successo durante la giornata, se ci sono stati litigi o novità.
Puoi vedere la tua famiglia?
Innanzitutto, è Il giudice a decidere se è opportuno o meno vedere i propri familiari, io posso vederli e passare del tempo con loro ma non vado spesso perché gli impegni scolastici me lo impediscono visto che non vivono vicino a me ma sento spesso le mie due sorelle, non saprei vivere senza di loro.
Oltre agli educatori, c’è qualcuno che si occupa del vostro stile di vita?
Si, spesso avvengono dei controlli sulla qualità del cibo oppure sulla sanità e se qualcosa non va come deve essere si prendono provvedimenti. A ogni controllo gli educatori presentano i faldoni di ognuno di noi, cioè degli appositi registri con i dati di ognuno.
E l’affetto chi ve lo dà?
Fortunatamente ho molti amici i quali non mi fanno sentire mai sola e come ho detto prima le mie due sorelle. Direi anche gli educatori con i quali si crea, a volte, un buon rapporto.
Franceska Dido