«Nei prossimi giorni, caro capitano, il comando del settore Nordest ha emanato le direttive in ordine alle operazioni invernali con la testuale raccomandazione di tenere alto lo spirito combattivo della truppa e non lasciar poltrire gli uomini nell’ozio». «Caro maggiore, la sola direttiva che questi uomini hanno inchiodato in testa è quella della strada di casa. Bisognerebbe impedire alla mente di pensare e invece…». E invece, come testimonia il serrato dialogo tra il capitano e il maggiore protagonisti di Torneranno i prati di Ermanno Olmi, uno tra i più lirici film sulla tragedia della Grande Guerra, la mente, specialmente quella dei soldati (e a dispetto dell’ottenebramento assertivo che la maggior parte dei superiori pretenderebbero da loro), si arrovella in continuazione. Non sono da meno quelle dei caporali William Schofield (George MacKay) e Tom Blake (Dean-Charles Chapman), scelti dal generale Erinmore dell’esercito britannico – nell’ultimo film di Sam Mendes (premio Oscar nel 1999 per American Beauty, l’autore degli ultimi due episodi della saga cinematografica di James Bond, Skyfall e Spectre) – come preziosi e urgenti inviati di guerra, il 6 aprile 1917, con l’obiettivo di raggiungere l’avamposto francese di Écoust-Saint-Mein e di far desistere il colonnello Mackenzie da un attacco suicida nei confronti di un nemico tedesco illusoriamente in fuga. Come in ogni missione (e narrazione) che si rispetti, a rafforzare il valore dell’incarico c’è un piano emotivo su cui far leva: dalla consegna del messaggio nei tempi stabiliti dipenderà non soltanto la vita dei 1600 uomini componenti il secondo Battaglione del Devonshire Regiment, ma anche quella del fratello del caporale Blake, di stanza laggiù. Così ha inizio – visivamente accanto a un albero, entro una sconfinata distesa erbosa che ben presto si rivelerà un punto di bivacco e sosta per i militari inglesi – 1917, un’opera ambiziosa e monumentale (vincitrice di tre premi Oscar) che ha messo al lavoro un’infinità di tecnici e maestranze, ideata da Mendes, che ne ha scritto la sceneggiatura insieme a Krysty Wilson-Cairns senza riferimenti storici precisi se non quelli generici del giorno dell’entrata in guerra degli Stati Uniti e dell’indietreggiamento tattico dei tedeschi lungo la linea Hindenburg, la cosiddetta Operazione Alberico. Il regista si affida, però, ai racconti di vita militare di suo nonno, Alfred Hubert Mendes, nativo di Trinidad, nei Caraibi, e combattente in quel lontano 1917 a Poelkapelle, l’odierna provincia delle Fiandre occidentali, in Belgio; una battaglia cruenta, con molte vittime. Il nonno di Mendes era stato incaricato, ad un certo punto, di portare alcuni messaggi lungo la linea del fronte: questa, a detta del regista, la fonte d’ispirazione narrativa del film, una situazione drammaturgicamente molto adatta ad innescare una serie di azioni e reazioni da far confluire in un plot. Anche sulla tanto chiacchierata (e il più delle volte travisata) questione dell’uso esclusivo del piano sequenza Mendes ha sgombrato il campo da ogni equivoco, descrivendo i vari passaggi delle riprese sul set ambientato nel Regno Unito, prevalentemente a Govan, nel Wiltshire, e nella riserva naturale di Hankley Common, con l’utilizzo prevalente ma non esclusivo di questa tecnica di ripresa per conferire fluidità al racconto e favorire l’immedesimazione dello spettatore nell’incredibile esperienza dei due soldati protagonisti. I differenti piani sequenza sono stati, in seguito, cuciti fra loro dal montatore Lee Smith, come ha confermato il produttore Callum McDougall: «È stato un film molto complicato da montare perché il procedimento con cui unire fra loro le scene, per ottenere l’effetto di un’unica ripresa e quindi mescolare tutto nel giusto modo, è stato molto elaborato, e doveva essere fatto velocemente per poter restituire a Sam un feedback immediato». Il risultato è l’immersione totale di chi guarda nello scenario evocato dalla storia, con un impressionante sensazione di realismo e l’autentica creazione – come ha fatto notare il regista – di una danza «tra gli attori, la cinepresa e il paesaggio», elemento non banale nell’iconografia della Grande Guerra, in genere tesa a sottolineare gli elementi di staticità di quel lungo e sfiancante conflitto di posizione (vedi l’emblematico Orizzonti di gloria di Stanley Kubrick, 1957, dove i combattimenti, lo strazio dei corpi, la morte, vengono accuratamente lasciati al di fuori del quadro, dominato anche visivamente da un Potere insensibile e ottuso). 1917 è quello che la cinematografia tedesca del dopoguerra chiamava “trummerfilm”, film delle macerie, dove la “no man’s land”, la terra di nessuno svuotata di uomini e senso dalla guerra viene attraversata e raccontata dallo sguardo della cinepresa, che è tutt’uno con il personaggio e – per traslato – con noi che guardiamo. Uno spazio estetico che possiede una sublime terribilità, come le vedute neoclassiche di Piranesi raffiguranti le rovine di Roma antica, o le vedute romanticamente decadenti di William Turner. Il movimento narrativo del film è pienamente circolare e ci ritroviamo, alla fine, in un contesto simile a quello dell’incipit, consapevoli – spettatori e personaggi – che nulla sarà più come prima.
La 92esima edizione della notte degli Oscar ha visto, tra gli altri, il trionfo di Judy, il biopic (tratto dall’opera teatrale di Peter Quilter End of the Rainbow) del regista e sceneggiatore inglese Rupert Goold sulla figura di Judy Garland, interpretata da una Renée Zellweger in stato di grazia, al suo secondo Oscar come miglior attrice non protagonista dopo quello vinto nel 2004 per Ritorno a Cold Mountain di Anthony Minghella. Il film ricostruisce – in maniera narrativamente fluida e ineccepibile dal punto di vista biografico, ma senza particolare mordente – i primi anni e quelli finali della lunghissima carriera artistica dell’attrice americana, nata Frances Ethel Gumm nel 1922, terza figlia di due artisti del vaudeville. Le frequenti digressioni temporali per mezzo di ben collocati flashback permettono allo spettatore di passare senza soluzione di continuità dalla fine degli anni Trenta, sul set hollywoodiano del celeberrimo Il Mago di Oz di Victor Fleming che le valse appena diciottenne l’Oscar giovanile, al limitare degli anni Sessanta, quando Judy, per provare a risanare la sua disastrosa condizione economica, accetta di esibirsi in una serie di concerti al Talk of the Town di Londra. Tra queste due date emblematiche scorre l’esistenza travagliata di una delle dive più straordinarie di tutti i tempi, in perenne oscillazione tra paradiso e inferno, abissi e altezze. In quello scorcio di 1968, nella fase finale della sua vita, la Garland ha alle spalle quattro matrimoni falliti, tre figli (due dei quali, Joey e Lorna, la accompagnano tristemente in un’esibizione da soli centocinquanta dollari, che non le permette neppure il soggiorno in un hotel), una carriera scintillante e un talento vocale clamoroso, annegati negli attacchi depressivi, nelle ubriacature e nel senso di solitudine. Renée Zellweger rende con estrema efficacia (sino ai limiti, un po’ fastidiosi, della tipizzazione) la fisicità sofferta, la plasticità del viso, l’umbratilità di una diva oramai sul viale del tramonto, ma ancora ricca di slanci, di sentimenti e passioni: del resto – una tra gli innumerevoli esempi di quel misterioso parallelismo arte-vita che spesso qualifica l’espressione creativa – l’attrice che ha conquistato successo e popolarità con il personaggio di Bridget Jones sa bene cosa significhi sacrificare il proprio corpo sull’altare della verosimiglianza e del realismo. «Ho imparato molte cose da Judy Garland – ha dichiarato la Zellweger nel corso di una conferenza stampa a Manhattan – il coraggio, la tenacia, la necessità di andare avanti. Ogni volta che impersoni qualcuno porti con te sempre qualcosa a fine giornata, ma con Judy ho trovato la mia voce».
Barbara Rossi