Natale arriva anche sul grande schermo quest’anno con la riproposizione – remake più che sequel, nonostante la narrazione riprenda dalla fine della pellicola di Robert Stevenson del 1964, vincitrice di cinque premi Oscar – di un vero e proprio classico sia della letteratura per l’infanzia che del cinema: con Il ritorno di Mary Poppins – trasposizione del romanzo di P. L. Travers Mary Poppins ritorna, 1935 – Rob Marshall (Chicago, Memorie di una geisha, Nine) si lancia nella perigliosa sfida di rinverdire i fasti di un grande successo mondiale già molto caratterizzato, con un occhio all’originale e il desiderio di superarlo per estro, inventiva e ritmo. La formula “commedia-dramma e canzoni” (la maggior parte di queste ultime composte ex novo per l’occasione) funziona, regalando agli spettatori (non solo i più giovani) più di due ore di intrattenimento di alto livello, di commozione, nostalgia, leggerezza. La storia riparte dalla Londra del 1930, preda della Grande Depressione, e da quella casa avita al numero 17 di Viale dei Ciliegi, dove – ormai adulto e padre a sua volta di tre bambini – vive Michael (Ben Whishaw), uno dei rampolli della famiglia Banks. Il tempo è trascorso, la fanciullezza svanita, e con essa l’allegria, vittima dei pesanti problemi che comporta il vivere quotidiano: la cura dei figli in assenza della loro madre, morta prematuramente, il ripetitivo lavoro in banca, le difficoltà economiche, per cui si profila minaccioso all’orizzonte il pignoramento della dimora famigliare. Di fronte allo sfacelo, però, la famiglia Banks ha da molto tempo un asso nella manica: si tratta della “vecchia” (in realtà mai invecchiata) bambinaia Mary Poppins (Emily Blunt, all’altezza del ruolo e del lascito affettivo depositato nell’immaginario collettivo dal premio Oscar Julie Andrews), con il suo ombrello volante e, nella capiente borsa, la soluzione per ogni problema. Si riconquisteranno, non senza fatica ma in forma stabile, ottimismo, energia e fiducia nel futuro. Lo stile di Rob Marshall possiede una sua magniloquenza: una sorta di retorica che, della stessa, elimina compiacimento, banalità e luoghi comuni. Operazione riuscita, dunque: ovviamente le differenze con il film originario sono visibili e niente affatto colmabili. Ma questo non procura troppo fastidio a chi guarda ed è inevitabile ogni volta che si decide di rivisitare un film di culto molto conosciuto e amato.
Torna sugli schermi in questi giorni di festa anche il regista napoletano Mario Martone con Capri-Revolution, pellicola presentata durante la scorsa edizione del Festival del Cinema di Venezia e chiusura ideale di una trilogia iniziata con Noi credevamo (2010) e Il giovane favoloso (2014). La narrazione è ambientata nel 1914 sull’isola di Capri, dove si stabilisce una singolare comunità di giovani artisti e pensatori i cui opposti indirizzi (spesso motivo di scontro e tensione) vengono incarnati dal pittore e filosofo Seybu (Reinout Scholten van Aschat), fautore del vegetarianesimo e del libero amore, e dal medico socialista-interventista Carlo (Antonio Folletto). Al centro, crocevia di sguardi, di esperienze, di incontri e discussioni, c’è Lucia (la superlativa Marianna Fontana, già protagonista con la sorella Angela de Indivisibili di Edoardo De Angelis, 2016), giovane capraia promessa sposa a un facoltoso isolano ma curiosa del mondo, ansiosa di conoscere e capire altre dimensioni dell’esistenza. Il film di Martone è estremamente materico, trascinato dall’esigenza di incontrare e raccontare da vicino la relazione, anche fisica, tra persone, e tra uomini e aria, cielo, terra, natura, in una comunione panica primaria e viscerale. Spiega Martone: “Questa relazione è centrale nel film: il rapporto con la natura significa essenzialmente questo, è il rapporto con le altre creature, che siano esseri umani, animali, la vegetazione o le rocce, molto presenti nella pellicola. Questo contatto vuol dire sentire l’esistenza dell’altro, sentire la necessità e il bisogno del confronto, anche quando è aspro. […] Questo è qualcosa che mi piace molto portare sullo schermo oggi: perché siamo in un tempo freddo da questo punto di vista, spinto a negare il confronto, che significa perdere ogni slancio vitale. Credo invece sia importante riproporlo, anche in direzione ostinata e contraria”. In mezzo, tra dibattiti e utopie, passa la Storia, sul crinale tra un passato da superare e un futuro dai contorni sfrangiati, ancora da accogliere e costruire. Ispirandosi liberamente all’esperienza di comune portata avanti a Capri dal pittore Karl Diefenbach agli inizi del Novecento, Mario Martone prosegue (e forse conclude) il discorso sulle aspirazioni, le ansie di rinnovamento e le spinte trasformative di giovani generazioni o di chi ha coltivato la giovinezza interiore come condizione irrinunciabile dell’anima. Un film pittorico e denso: importante, necessario.
Buon Natale da chi scrive.
Barbara Rossi