Lazzaro felice, l’ultimo film di Alice Rohrwacher (il terzo, dopo Corpo celeste e Le meraviglie), approda in questo primo fine settimana di giugno sui nostri schermi, dopo essere stato in concorso allo scorso Festival di Cannes, dove ha vinto nella sezione ‘miglior sceneggiatura’. Candidata a tre Nastri d’Argento, la pellicola racconta la storia – vero e proprio romanzo di formazione alla maniera dell’ “Emilio” di rousseauiana memoria – della crescita e dell’approccio alla vita di Lazzaro (l’sordiente Adriano Tardiolo), dapprima ragazzino senza origini certe, al servizio della severa marchesa Alfonsina de Luna (Nicoletta Braschi) all’interno di una comunità agricola che testimonia il nostro passato rurale e che ruota intorno a una piantagione di tabacco; poi uomo nella grande città, ai tempi nostri, immerso nel caos metropolitano senza emozione ne cuore, alla ricerca del grande amico Tancredi, figlio della perfida marchesa Alfonsina e faro nella notte, punto di riferimento, modello per un’adolescenza istintiva, libera, senza troppi rovelli o complessi. Lazzaro felice è un film felicemente anarchico, a tratti sconclusionato, sospeso tra fiaba e realtà, immerso nel fiume della storia e, nello stesso tempo, al di fuori: un’opera ‘alla maniera’ di Olmi, dei fratelli Taviani. “In questo momento parlare di Olmi è doveroso, necessario e commovente”, afferma la regista. “Non c’è sguardo che mi manca di più. ll desiderio di fargli vedere questo film era forte, ma purtroppo non ce l’abbiamo fatta. Abbiamo finito il film mercoledì e non sapevo davvero come sarebbe andata: era una scommessa. Sono molto felice che sia stato accolto bene: è un film un po’ bislacco, molto libero… è come ci è venuto. È anche un film religioso nel senso preistorico del termine: di una religiosità pura, prima dell’avvento della religione. La storia, simile a quella di San Francesco, è ispirata a un libro per bambini di Chiara Frugoni, che mi ha ispirato molto. Si tratta di un film spirituale ma fatto anche di corpi, luoghi, persone, odori, lavori. Il tempo su cui abbiamo lavorato, e devo ringraziare scenografia e costumi, è stratificato: abbiamo inventato un’epoca. Parlare di Lazzaro vuol dire parlare del meno protagonista di tutti, che per una volta lo è: sono le persone che non sono mai messe in primo piano, che sono sempre gli ultimi della fila e non vengono mai inquadrati, anzi, che per non disturbare si mettono in disparte. I Lazzaro in tutto questo intrecciarsi di bene e male non hanno un giudizio: Lazzaro non giudica chi ha davanti ma ha fiducia nel prossimo. Anche se non sempre lui stesso si comporta bene: nel film fa addirittura un rapimento e una rapina”.
In Montparnasse femminile singolare, opera prima della regista francese Léonor Serraille e vincitrice della Camera d’or all’ultimo Festival di Cannes, Paula (una bravissima Lætitia Dosch) è una jeune femme (titolo originale del film) che si ritrova, senza preavviso, sola, abbandonata dal fidanzato, scacciata di casa dalla madre (Nathalie Richard), a vagare per una Parigi caotica, ostile, con il suo gatto, senza denaro, alla ricerca di un lavoro qualsiasi, di una soluzione, di una ragione di sopravvivenza. Anche questo, come Lazzaro felice, è un romanzo di formazione, l’evoluzione di una giovane donna sui trent’anni, confusa ma in cerca di collocazione e identità, così come la società di cui fa parte. Personaggio irrisolto, comune, ‘normale’ nella sua indeterminatezza, mancanza di sogni particolari, di passioni speciali, di competenze specifiche, la Paula della Dosch ci restituisce la freschezza, la naturalezza dell’essere come tante: senza particolari aspirazioni all’assoluto, ma con la voglia e il diritto di stare, comunque, nel mondo con la propria voce. Un film truffautiano, una commedia drammatica che rivisita con originalità gli stilemi della Nouvelle Vague e racconta una città (Parigi) e una condizione del femminile con affettuosa e lucida ironia.
Barbara Rossi