In questo fine settimana di metà maggio si conclude al cinema il racconto dell’ascesa e della caduta di Silvio Berlusconi fatto dal premio Oscar Paolo Sorrentino: Loro 2 approfondisce, pur nella voluta esteriorità di forma e contenuto, gli snodi, le involuzioni, i punti critici nella parabola del Cavaliere, approfittando della straordinaria bravura di Toni Servillo – sempre più caricaturale, maschera nella maschera – e del variegato cast di attori che gli ruota attorno. Il tempo trascorre, in Loro 2, muta e corrompe anime e corpi, la “corte dei miracoli” berlusconiana si assottiglia, si sfalda, si modella su azioni che non accadono, su eventi, luoghi, volti, corpi, cui il sagace lavoro del direttore della fotografia Luca Bigazzi sottrae sempre più sostanza e spessore, immergendoli in un’alternanza sfiancante e vuota di luci e ombre. E’ l’apoteosi dell’inutile, del superfluo, del ridondante, la fiera del grottesco che – oltre e dietro l’eccesso – non offre nulla, se non un’acuta mancanza di senso. Un “ground zero” di macerie, su cui non è possibile riedificare perché, in realtà, anche prima dello sfacelo, vi cresceva soltanto l’illusione perversa di uno straripante benessere, crudele specchio per Loro, le vanitose e fatue allodole di un’Italia spogliata di identità e del rispetto di sé.
Il Dubbio – un caso di coscienza, secondo film del regista iraniano Vahid Jalilvand (Un Mercoledì di Maggio), premiato a Venezia lo scorso anno nella Sezione Orizzonti, racconta – attraverso la dolorosa e angosciante vicenda della morte di un ragazzino – non solo un caso di coscienza individuale ma anche la crisi etica e civile di un intero Paese, l’Iran di oggi, lacerato da colpe inconfessate e pesanti retaggi culturali. Kaveh Nariman (Amir Aghaee) lavora all’obitorio come medico legale: una sera si scontra per caso con la motocicletta su cui sta viaggiando un’intera famiglia. Un bambino cade, sbattendo la testa; lo stesso che, qualche ora più tardi, giungerà all’obitorio, ufficialmente avvelenato dal botulino proliferante in alcuni polli avariati di proprietà del padre Moosa (Navid Mohammadzadeh). Da qui inizierà il calvario di due uomini, sia Moosa – padre disperato e ossessionato dalla ricerca di un senso a quanto accaduto – sia Kaveh, medico in crisi con se stesso e la propria deontologia professionale, tormentato dal dubbio di avere rivestito un ruolo non secondario nella morte del piccolo. Il film rappresenta con grande efficacia la forbice sociale esistente nella società iraniana, ben rappresentata dall’indigenza in cui versa la famiglia di Moosa, contrapposta al benessere medio borghese di Kaveh e della moglie. Lo stile è scarno, spoglio, essenziale, lucida indagine, scavo d’ambiente e di caratteri, nell’iperframmentazione temporale che riflette il disordine della vicenda e la confusione degli animi. Il finale è aperto, nella più completa sospensione del giudizio, che viene affidato allo spettatore. Una pellicola realista, amaramente riflessiva.
Barbara Rossi