Il primo fine settimana di maggio saluta l’originale ritorno sul grande schermo del geniale regista americano Wes Anderson (Gran Budapest Hotel), al suo secondo film d’animazione dopo Fantastic Mr. Fox, uscito nel 2009. L’isola dei cani, film girato con la tecnica dello stop motion (in cui la cinepresa impressiona un solo fotogramma alla volta), vincitore dell’Orso d’Argento a Berlino nella categoria “miglior regista”, racconta il futuro distopico di un Giappone del 2037, che segrega l’intera colonia di cani a Megasaki City, preda dell’influenza canina, su di un’isola zeppa di rifiuti. Atari, dodicenne in gamba e innamorato del suo cane Spots, anche lui destinato al confino, decide di partire alla sua ricerca, coadiuvato nell’impresa, sull’isola, da un gruppo di altri cani in fuga per la libertà. Con il suo consueto stile minimale, rigoroso, geometrico ma partecipato e non insensibile di fronte alle dinamiche del cuore, Anderson narra un futuro distorto e decadente, che somiglia al passato, in cui tra le rovine germina il seme della disuguaglianza, della separazione e della diffidenza verso l’Altro. Il tono è leggero, ironico, ma il discorso che Anderson imbastisce, in questa pellicola in cui è avvertibile l’influsso del cinema di Akira Kurosawa, risulta terribilmente serio. Dietro il dramma dei cani tenuti in ostaggio occhieggia, infatti, la società degli uomini, nel suo continuo erigere muri e barriere.
Bertrand Valade (Gaspard Ulliel) è uno scrittore di successo ma privo di talento, debitore delle sue fortune al vecchio scrittore inglese per cui lavorava, cui ha sottratto un importante testo teatrale inedito al momento della morte. Spinto dal suo agente a produrre una nuova pièce, Bertrand si riduce a trarre ispirazione dai furtivi e mercenari incontri con una matura donna misteriosa, che si fa chiamare Eva (Isabelle Huppert). Il regista francese Benoit Jacquot trae dal romanzo di James Hadley Chase che aveva già ispirato Joseph Losey nel 1962, protagonista Jeanne Moreau, un film non propriamente fedele, dove la fonte principale di seduzione è rappresentata dalla Huppert, algida, distaccata, insensata signora borghese che si prostituisce, senza reale motivo, e il cui unico amore pare essere il marito detenuto. La confezione è di lusso, le atmosfere rarefatte, ma la pellicola non ingrana e non regge il confronto con gli illustri precedenti. “Il film è visto dalla parte di Bertrand e della sua ossessione”, sostiene la Huppert. “Eva è un suo fantasma. Esiste, ma non come la vede lui. Eccita la sua ambizione letteraria, ma alla fine scopriremo che è ben poca cosa. È una prostituta, è una moglie devota che va in carcere a trovare il marito, è una borghese, è tutte le maschere che le chiedono di essere, ma Eva, in fondo, non è nulla”.
Barbara Rossi