Il regista e sceneggiatore palestinese Sameh Zoabi, con Tutti pazzi a Tel Aviv al suo secondo lungometraggio dopo Man Without a Cellphone (2011), si serve abilmente e con sagacia degli strumenti della commedia per raccontare, con stile inconsueto e originale, il sempiterno conflitto tra israeliani e palestinesi. Salam (Kais Nashif), giovane trentenne abitante a Gerusalemme viene impiegato dallo zio Bassam (Nadim Sawalha) come stagista presso uno studio televisivo di Ramallah, dove si gira Tel Aviv on Fire, celebre soap opera palestinese. Quotidianamente, per raggiungere il posto di lavoro, Salam è sottoposto ai severi controlli da parte della squadra di militari capitanati dall’ufficiale Assi (Yanis Biton). La vita, come spesso accade, ci mette lo zampino: sfortunatamente la moglie di Assi è un’appassionata spettatrice del programma, di cui Salam si è spacciato sceneggiatore. L’ufficiale fa scritturare il ragazzo per scrivere il seguito della storia, e proprio allora si rende manifesto il conflitto tra il militare e i finanziatori arabi dell’intera produzione… Tutti pazzi a Tel Aviv, presentato alla 75esima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, sceglie il registro dell’ironia e della riflessione mordace sui meccanismi della rappresentazione, sfruttando lo stesso fittizio ed estremo stile televisivo (contrapposto al realismo del vivere quotidiano nel bel mezzo di un conflitto) per provare a riflettere sulle dinamiche di una contrapposizione storica molto complessa, le cui origini si perdono e confondono molto lontano nel tempo, con scarse possibilità di ricostruire i torti e le ragioni. Una pellicola intelligente, con buon ritmo, ben girata, che stimola il pensiero critico e lancia un messaggio, banale fin che si vuole: una possibilità di riconciliazione si può sempre trovare, basta essere disposti a cercarla.
Ventiduesimo film del regista spagnolo, ottavo con protagonista l’alter-ego Antonio Banderas (dal lontano Labirinto di passioni, 1982) e sesto con Penélope Cruz, nel ruolo della madre Jacinta, Dolor y gloria è un vero e proprio testamento spirituale, un malinconico e intenso dipinto autunnale, sovrabbondante di colore, memoria, sentimento, “dolore e gloria”, appunto, che non fanno solo parte del vivere, ma, in questo caso, della parabola di un multiforme artista. Scandita temporalmente in tre parti – gli anni Sessanta che rievocano l’infanzia del regista e la provincia di Valencia tanto amata, gli anni Ottanta madrileni con le prime esperienze di vita e d’amore, e l’epoca attuale – è un’opera (la terza di Almodóvar con al centro un cineasta, dopo La legge del desiderio, 1987, e La mala educación, 2004) splendidamente affabulatoria, intimista, autobiografica e autoreferenziale, ma meno melodrammatica rispetto ad altre precedenti. L’intento è la conciliazione con il passato e con le sue figure di riferimento, attraverso l’immersione nei ricordi, depurati grazie al trascorrere del tempo dalle incrostazioni dei rimorsi e dei rimpianti. In questa sorta di amarcord, di felliniano (e dunque circense) racconto di sé, l’alfa e l’omega sono rappresentati dalla figura di Salvador Mallo (Antonio Banderas), più che un personaggio centrale: in realtà, autentico doppio, ombra incostante ma perenne da cui trapela senza sforzo la personalità di Almodóvar. Per entrambi, nella finzione dello schermo come nella vita, il cinema ha rappresentato la speranza, il futuro, in definitiva la salvezza dal baratro della depressione, e perfino della malattia fisica: «Sia il personaggio di Antonio che io viviamo il grande problema di credere di non poter vivere senza il cinema, proviamo il grande senso di smarrimento che può venire dalla crisi di ispirazione e anche dalla sensazione di non poter tornare sul set per dolori fisici e la depressione. È la mia paura più grande, convivo con questo fantasma. Quando nel monologo lui dice “il cinema mi ha salvato”, è esattamente quello che è successo a me». Banderas, dal canto suo, diviene nel film piena e robusta espressione di quel connubio arte-vita che sta alla base del mistero dell’essere di ogni commediante, in una tra le prove interpretative migliori della sua carriera: «Quando mi ha dato la sceneggiatura, mi ha detto troverai un sacco di riferimenti a persone che conosci, tu stesso compreso. Ma è una sofferenza: devi liberati di tutto quello che sapevi prima, devi rimanere senza difese, è come ricominciare da zero. Il personaggio soffre e io ho usato la mia personale sofferenza nel film».
Barbara Rossi