Il weekend di metà maggio ci permette di assistere alla proiezione (domenica 12 maggio alle 18.30, al cinema Macallè di Castelceriolo, con proiezione unica) del primo film del regista e drammaturgo trentaquattrenne Alexis Michalik, Cyrano, Mon Amour, che ricostruisce (dopo aver debuttato nel 2016 sul palcoscenico del Théâtre du Palais-Royal, vincendo cinque premi Molières con un pubblico di oltre 700.000 spettatori), la genesi dell’immortale capolavoro di Edmond Rostand (1897), tra rappresentazione cinematografica e teatro filmato. Al cinema così come nella trasposizione teatrale il regista restituisce freschezza e contemporaneità in primis al personaggio di Cyrano, interpretato da Thomas Solivérès, con tutte le sue ambasce e angosce di scrittor giovane in cerca di successo e ispirazione: poi anche a chi gli sta intorno, dall’attore Coquelin Aîné (Olivier Gourmet) alla grande diva Sarah Bernhardt (Clémentine Célarié), alla musa ispiratrice e costumista Jeanne (Lucie Boujenah). Trovando ispirazione, per sua stessa ammissione, in Shakespeare in Love di John Madden (1998) e in parte anche nella propria vicenda personale, Michalik racconta con estro, brio e leggera arguzia le difficoltà, gli imprevisti, le fatiche che condussero alla prima rappresentazione mondiale, al Théâtre de la Porte Saint-Martin, il 28 dicembre 1897.
Sugli schermi in questi giorni anche Red Joan di sir Trevor Nunn (stimato regista teatrale e televisivo britannico, autore di numerose riduzioni shakespeariane), presentato nel 2018 al Festival del cinema di Toronto. Melita Norwood, la fisica nucleare dell’università di Cambridge al centro della rievocazione storica in salsa spy-story di Nunn, è salita agli onori della cronaca nel 1999, quando – in seguito alla diserzione dell’agente segreto russo Vasilij Nikitič Mitrochin, vennero resi noti i nomi di un congruo numero di spie sovietiche in azione tra la seconda guerra mondiale e la guerra fredda. Tra quei nomi c’era anche il suo, all’epoca corrispondente ormai soltanto alla figura di un’anziana e tranquilla pensionata, non penalmente perseguibile. Accusata di alto spionaggio per aver divulgato all’Unione Sovietica alcuni processi utili alla fabbricazione della bomba atomica, la Norwood si portò addosso l’infamante marchio della traditrice della propria patria. Lo scorso anno la scrittrice Jennie Rooney ne ha ricostruito le vicende nel romanzo La ragazza del KGB (Piemme), evidenziando alcune ragioni della dolorosa e controversa scelta di campo, tra le quali la coscienza della necessità di contribuire al riequilibrio dei destini del mondo, lanciato verso la catastrofe nucleare. Una pellicola con un andamento ritmato e concitato – tipico di questo genere, erede delle saghe cinematografiche bondiane – ma anche piuttosto “classica” in toni e linguaggio, supportata, tuttavia (e in parte riabilitata) dall’impeccabile recitazione di Judi Dench, ricca di sfumature e inflessioni. Sophie Cookson e Tom Hughes rivestono rispettivamente i panni di Melita giovane scienziata e di Leo Galich, l’acceso comunista di origini russe di cui la prima si innamora, innescando nel proprio animo un ulteriore rovello. La Cookson (già vista in Crucifixion di Xavier Gens, 2017), pur nella sua diligenza interpretativa, non riesce a sollevarsi ai livelli della divina Dench, attrice ottantaquattrenne ma ancora piena di energie e vivacità, nel ricordo dei suoi molteplici e disparati ruoli, come delle otto interpretazioni del personaggio di M nelle pellicole dedicate a James Bond. Inarrivabile, appunto.
Barbara Rossi