Gabrielle Sidonie Colette, in arte soltanto “Colette”, è stata una delle scrittrici-artiste-intellettuali mito del Novecento, per la bellezza e l’intelligenza sfrontate, non asservite ad alcuno, per il dinamismo e l’indipendenza, il talento letterario, la cultura, riunificati in un protofemminismo imperativo e convinto, senza mezze misure. Alcuni film precedenti a questo – che porta semplicemente il suo nome – di Wash Westmoreland (autore, insieme al compagno Richard Glazer, scomparso nel 2015, di Still Alice, con cui Julianne Moore ha vinto l’Oscar per la sua interpretazione di una scienziata affetta dal morbo di Alzheimer), hanno ripercorso esistenza, amori, trasgressioni, assunti letterari di Colette, in modo più o meno franco e convincente: vedi, ad esempio, Gigi di Vincente Minnelli (1958, film vincitore di nove premi Oscar) e Chéri di Stephen Frears (2009, con Michelle Pfeiffer). Colette, quest’ultimo biopic – protagonista l’eterea ma solitamente intensa Keira Knightley, specializzata nel restituire sul grande schermo eroine otto-novecentesche dal carattere sanguigno e anticonformista (Orgoglio e pregiudizio, A Dangerous Method, Anna Karenina) – non coglie pienamente nel segno, racchiudendo in una confezione extra elegante e raffinata un profumo dal sentore un po’ debole e certo non all’altezza dell’illustre matrice. La forma e struttura narrative, l’approccio estetico risultano, alla lunga, un po’ vuoti e troppo tradizionali, incapaci di penetrare davvero nella complessità della figura della scrittrice; non supportati, su questo piano, dalla performance della Knightley, che rimane al di sotto del livello mediano, impeccabile ma imbrigliata. Dominic West giganteggia nel ruolo di Henry Gauthier-Villars – più conosciuto come Willy – il brillante imprenditore letterario e scrittore dalla cui sudditanza maritale Colette si libererà, per vivere la propria vita e il proprio estro creativo in piena luce.
Che cosa può accadere in una normale scuola elementare, in una normalissima mattina appena prima delle vacanze di Natale, se, incidentalmente, un alunno di origini musulmane scaglia una pietra e ferisce il bidello di turno? Nulla, ma soltanto in via teorica: nella realtà, del plot e della vita, invece, è destinato a scatenarsi il classico putiferio, con l’andamento a tratti ironico e assurdo di una commedia tragica. L’attore romano Rolando Ravello (già regista di Tutti contro tutti e Ti ricordi di me, tra gli sceneggiatori di Perfetti sconosciuti) firma insieme allo sceneggiatore Stefano Massini (7 minuti) una pellicola in pieno stile Carnage, ben oliata di dialoghi e situazioni scorrettissime, quotidiane malignità, cattiverie, cinismo e paternalismo d’accatto, dove il buonismo di facciata dei personaggi sulla scena – dal preside cattolico (un superlativo Corrado Guzzanti) alla maestra vegana (Lucia Mascino), dal bidello ebreo (Valerio Aprea, in coppia con la “moglie” Iaia Forte) alla madre e alla nonna del piccolo Samir (Kasia Smutniak e Serra Yilmaz) – tenta invano di celare l’integralismo e il razzismo di fondo. Una rappresentazione amarissima di un’Italia che non riesce ad andare oltre i propri limiti prospettici, incapace di un autentico dialogo interrazziale. Certo, se le intenzioni di regista, sceneggiatore e attori sono più che buone, questo non riscatta La prima pietra da qualche scivolone, qualche banalità di troppo, il rimanere a volte – come l’eterogeneo gruppo dei suoi personaggi – irrimediabilmente alla superficie delle cose. Buona la prima, con riserva.
Barbara Rossi