Giudicare, raggiungere l’equanimità di una sentenza che tuteli sia gli interessi e le spesso contrastanti posizioni in tema di diritto civile della società sia le necessità dei singoli è forse l’impresa più ardua per un legislatore o per chi si occupa di far mettere in pratica e rispettare le norme. Se ne rende conto molto presto, la Fiona Maye di Emma Thompson (un’attrice grandissima, che con la piena maturità e ruolo dopo ruolo infonde nei personaggi in maniera sempre più visibile e convincente il suo raro talento), giudice dell’Alta Corte britannica specializzata in diritto di famiglia, protagonista di The Children Act – Il Verdetto di Richard Eyre. Dal suo stesso romanzo, La ballata di Adam Henry, lo scrittore Ian McEwan adatta per il grande schermo la storia realmente accaduta di un giovane testimone di Geova inglese, malato di leucemia, che rifiutò le cure salvavita a causa della sua fede. Si badi bene: questo non è l’ennesimo legal thriller, ma molto di più: è uno scandaglio nelle profondità di una personaggio, quello di Fiona, che conduce una vita divisa e sospesa tra fedeltà al proprio ruolo e affezione per un privato – marito, casa – che di continuo le sfugge, e che viene riportato prepotentemente alla ribalta grazie a un caso, invece, di pubblico dominio. La scelta non è semplice, come sempre accade: ancora più complicata, in questo frangente, perché attiene alla sfera dei dilemmi morali, dei semtimenti, di un domestico che Fiona ha sempre trascurato, strenuamente convinta che nel formulario legale vi fossero tutte le risposte. Una meravigliosa figura di donna, con un arco evolutivo del personaggio elevatissimo: un ottimo dramma, ben orchestrato e diretto.
Bradley Cooper, attore (Il lato positivo – Silver Linings Playbook, American Hustle – L’apparenza inganna, American Sniper), cantante e neo-regista, all’esordio proprio con questo A Star is Born – campione d’incassi nelle sale italiane in questi giorni e già presentato fuori concorso a Venezia 75 – firma l’ennesimo remake (per la precisione il terzo) della pellicola originaria di William Wellman con Janet Gaynor e Fredric March, 1937. Con un occhio di riguardo anche verso le successive rielaborazioni, a partire da quella di George Cukor con Judy Garland e James Mason, 1954, sino ad arrivare alla versione di Frank Pierson con Barbra Streisand e Kris Kristofferson, 1976, nei confronti della quale contrae più debiti. Il tema non muta, ovviamente: nasce una stella (Ally/Lady Gaga) laddove un’altra (Jackson Maine/Bradley Cooper), vero e proprio mito del country-rock, declina, tra fumi etilici, nodi mai dipanati con padri e famiglie castranti, abuso di droghe ed eccessi funambolici. Su questo nulla di nuovo: plot ad alto tasso di convenzionalità, nonostante l’intervento in fase di sceneggiatura di Eric Roth, come prevedibile risulta, a tratti, la pur magnifica ed empatica messa in scena, con i climax delle pubbliche e festanti esibizioni della coppia Cooper-Gaga, emozionanti per il notevole talento interpretativo e vocale dei due, o la progressione della love story, scandita da momenti abbastanza tipici. Eppure, la narrazione funziona, nella sua capacità di andare a stimolare punti nevralgici del corredo di emozioni spettatoriali; Bradley Cooper, poi, è in parte, ma la vera rivelazione del film è Stefani Joanne Angelina Germanotta, costretta dal regista e collega a spogliarsi dell’apparato di lustrini e pailettes che impedisce alle sue ottime qualità recitative di emergere. C’è anche, nemmeno troppo sottesa, una discreta quantità di temi importanti e complessi: il divario tra essere e fare, la lontananza tra talento e resa scenica, l’arte, l’amore e la vita. La nostalgia di ciò che è stato e che non tornerà più. Non è poco, pur se racchiuso in una cornice non troppo originale.
Barbara Rossi