In questo weekend di inizio autunno possiamo, cinematograficamente parlando, compiere una sorta di slalom ideale fra pellicole molto diverse per genere e modalità di rappresentazione, ma unite dal fil rouge tematico della messa in scena e analisi dei legami familiari.
Con Un affare di famiglia – vincitore della Palma d’oro al Festival di Cannes 2018 – il giapponese Hirokazu Kore’eda, già indefesso esploratore di motivi e dinamiche familiari nei precedenti Little Sister, Father and Son e Ritratto di famiglia con tempesta, racconta uno scorcio d’esistenza, insieme felice e dolorosa, di Osamu, della moglie Nobuyo, della nonna Hatsue e di sua nipote Aki, dei piccoli Shota e Yuri (quest’ultima, bambina smarrita, abbandonata da genitori in crisi, entro una cornice di quotidiane violenze e infelicità domestiche). La realtà e la verità delle vite di questi personaggi non si condensa (quasi mai, nel cinema di Kore’eda) in ciò che si intravede sulla superficie del visibile: nessuno è del tutto ciò che dice di essere, alle spalle ci sono drammi, solitudini, tragedie sentimentali, scacchi affettivi. C’è la fatica del vivere, la precarietà, la miseria, il vivere di espedienti, in un Giappone splendidamente fotografato nella sua coesistenza di antico e moderno, nel suo trascorrere delle stagioni – alla guisa di un acquerello, di un haiku – eppure avulso da ogni riferimento geografico troppo preciso. C’è una casa povera, il cibo come rituale ma anche piacere istintivo, necessità primaria perennemente da soddisfare; ci sono gli scherzi, gli abbracci, i gesti d’affetto che solo una famiglia può offrire ai suoi membri. E qui si evidenzia l’interrogativo su cui il regista nipponico continua a tornare nelle sue opere: la domanda che ruota intorno al conflitto tra legami di sangue e legami sociali frutto di una scelta, espressione della volontà dei singoli di stare insieme, di “diventare” famiglia. Senza risposte evidenti ma, di certo, con una verità sottesa, che viene a galla – in questo film gioiello, fatto di scorci, prospettive sghembe, illuminanti primi piani – in una battuta di Nobuyo: “A volte è meglio scegliersela la propria famiglia”.
Anche Gli Incredibili 2 – proseguo de Gli Incredibili – Una “normale” famiglia di supereroi (2004) scritto e diretto da Brad Bird, prodotto dalla Pixar – si concentra sulla rappresentazione simbolica di modalità e dinamiche familiari, attraverso le nuove avventure del gruppo di supereroi rappresentati da Mr Incredibile ed Elastigirl, insieme ai piccoli Violetta, Flash (già in fase adolescenziale) e Jack Jack. Come in tutte le famiglie i figli crescono, con tutti i problemi del caso, gli adulti sono alle prese con incombenze quotidiane, lavoro e altri grattacapi: la straordinarietà dei superpoteri di questi nuovi super-eroi non cambia l’assunto di base. Interviene qualcosa, però, a innescare la storia e a stravolgere l’equilibrio di partenza (come in tutti i racconti archetipici): un nuovo personaggio, il magnate Winston Deavor, grandissimo fan dei nostri, propone a Helen di farsi monitorare da una telecamera progettata da sua sorella Helen, che permetterà alle persone “normali” di vedere il mondo e le situazioni attraverso gli occhi della Elastigirl, facendo finalmente assumere loro il suo punto di vista. Questo stratagemma condurrebbe la famiglia Parr verso la “riabilitazione” agli occhi dell’opinione pubblica, che li considera dei fuorilegge. Da questo punto di partenza tematico il plot si srotola fantasmagoricamente sulle percezioni sensoriali degli spettatori, anche grazie alla tecnica d’animazione digitale. Il risultato è, come nella prima avventura di quattordici anni fa, molto buono, anche se un po’ prevedibile in trovate narrative e visive. Rimane, comunque, apprezzabile il tentativo di smitizzazione (in atto già da tempo nel cinema contemporaneo) del super eroe al rango di una persona comune, con le medesime emozioni, pensieri, soddisfazioni e difficoltà: oltre alla volontà di narrazione delle caratteristiche di una famiglia dei giorni nostri, attraverso il filtro del fantastico e con la consapevolezza della necessità di possedere poteri super fini, per rimanere a galla e non disperdersi, nella complessità della vita attuale.
Barbara Rossi