In questo caldo fine settimana di luglio approda nelle nostre sale Stronger di David Gordon Green, opera in cui il regista americano (classe 1975) ricostruisce la tragica vicenda dell’attentato alla maratona di Boston del 15 aprile 2013 – con un bilancio di tre morti e duecentosessanta feriti – attraverso la parabola difficile e dolorosa di Jeff Bauman (Jake Gyllenhaal, molto più maturo rispetto a precedenti ruoli) e della sua fidanzata Erin (Tatiana Maslany). Jeff, in crisi con Erin, decide di riconquistarla dedicandole un cartello da piazzare sulla linea del traguardo della famosa maratona di Boston. Il destino, beffardamente crudele, gli restituirà Erin sottraendogli, però, l’uso delle gambe, amputate entrambe dal ginocchio in su, dilaniate dall’esplosione di natura dolosa che ha sconvolto la gara. Inizierà da lì per Jeff il lungo e sofferto cammino verso una riabilitazione non solo fisica ma anche e soprattutto psicologica, emotiva, tra responsabilità morale e civile (ha visto il volto dell’attentatore, collabora con la polizia alla sua cattura), problemi e crisi privati e l’attenzione sempre più morbosa di un’opinione pubblica e mediatica cui interessa solo trasformare il singolo, la persona comune, in mito al di fuori del tempo e della storia, per purificarsi la coscienza e provare a fugare l’incubo dell’Altro, la minaccia esterna di chi arriva a turbare la quiete apparente del domestico e noto. Miranda Richardson è superlativa nel ruolo della madre di Jeff, un’alcolista come la maggior parte della famiglia irresistibilmente sedotta dall’interesse della folla e dei media, incurante dei reali bisogni del figlio: il film non raggiunge le profondità filosofiche delle opere di Eastwood, nell’analisi della creazione dei falsi miti e riti della società americana post distruzione del Sogno, ma è onesto nel rappresentare ciò che è stato, il contrasto tra un ragazzo come tanti al mondo, con desideri, aspirazioni normali, semplici, e la spietatezza di un mondo occidentale sempre più votato ad un’autorappresentazione falsa e vuota, per soffocare un’acuta mancanza di senso e di spessore.
Al cinema Macalle’ di Castelceriolo è possibile rivedere, in questi giorni, 50 primavere, della regista francese Blandine Lenoir; una commedia al e sul femminile, protagonista Aurore (Agnès Jaoui, attrice molto conosciuta e apprezzata in patria, quasi sconosciuta da noi), una donna alle soglie di quella che un tempo si definiva “mezza età”, oggi alle prese con due figlie ormai grandi, i primi problemi sentimentali dell’una, la maternità dell’altra, un lavoro da ritrovare, un matrimonio alle spalle e (forse) una nuova passione da vivere con un’antica fiamma. Uno stato di relativa precarietà, insomma, che ai tempi nostri sta diventando sempre più, in forme diverse, transgenerazionale. Aurore è un bel personaggio, una donna “moderna”, un mix riuscito di forza e gentilezza, di saldezza e fragilità, di passato e futuro, ma senza vittimismi, rassegnazione o lamenti. Il tempo attuale è quello che è, la vita ha un ritmo sociale e uno biologico, ma è possibile non farsi soverchiare da entrambi. Gli uomini non sono sempre e necessariamente un nemico da combattere o uno spauracchio, ma, come le donne, persone a volte amiche, a volte semplicemente di sfondo o contorno, in certi casi presenze importanti. Una commedia altrettanto “onesta” come il film di Gordon Green, pulita, essenziale e sincera nel raccontare e mettere a confronto le diverse fasi della vita di una donna, con un pizzico di ironia e senza inutili compiacimenti.
Barbara Rossi