Esce sui nostri schermi in questi giorni di metà giugno – dopo essere stato presentato a Cannes in maggio – La stanza delle meraviglie, di Todd Haynes (Lontano dal Paradiso, Carol), che traspone l’omonimo libro (Wonderstruck, nell’edizione originale inglese) di Brian Selznick, qui anche sceneggiatore e già autore di La straordinaria invenzione di Hugo Cabret, che Scorsese ha trasformato in magnifica antologia cinematografica, vera e propria sinfonia visiva. Haynes non è Scorsese, purtroppo, ma possiede in ogni caso, oramai, la grandezza matura di un artigiano di lungo corso, abile e sagace narratore di storie, giocoliere del visivo, tra il lavoro di montaggio e la scelta sopraffina di musiche e arie. Nel 1927 Rose (Millicent Simmonds), una ragazzina sorda di dodici anni, scappa dal New Jersey, dove vive, per raggiungere New York e la madre, diva del cinema muto impegnata a Broadway. Nel 1977 Ben (Oakes Fegley), dodicenne inquieto e curioso, fugge dal Montana verso New York, alla ricerca di un padre mai conosciuto. I loro percorsi, paralleli a dispetto del tempo che li separa, convergeranno nel medesimo luogo, “la stanza delle meraviglie”, il museo di storia naturale di Manhattan: qui, ad entrambi verrà fornita l’occasione per crescere e dare un senso alla propria vita. Melodramma tipicamente haynesiano, raffinato ed esteticamente puro, La stanza delle meraviglie vuole essere un ulteriore omaggio al buio di un luogo dalla cui oscurità zampillano ininterrottamente sogni e visioni, fantasmagorie e luminosi giochi di prestigio visivi. Non è Hugo Cabret, ma i due giovanissimi protagonisti sono eccellenti, la confezione perfetta ma non scevra di tenerezza, di fulgida e lenta malinconia.
Benvenuto in Germania! del giovane regista Simon Verhoven, figlio dell’attrice Senta Berger, campione d’incassi – non casualmente, in questo periodo storico – nel proprio Paese, si apre con il personaggio interpretato dalla stessa Berger, Angelika Hartmann, professoressa bavarese in pensione, trascurata dal marito Richard (Heiner Lauterbach), affermato chirurgo con l’ansia di invecchiare, come dai figli Sophie (Palina Rojinski), trentunenne ancora indecisa riguardo il suo futuro, e Phillip (Florian David Fitz), nevrotico avvocato in carriera con figlio irrisolto a carico e un divorzio alle spalle. Un po’ per ripicca, un po’ per noia e per istinto di emulazione, sulla scia di un’amica attivista che la conduce a visitare, un giorno, un centro di accoglienza per richiedenti asilo, Angelika decide di ospitare in casa sua Diallo (l’esordiente Eric Kabongo), tranquillo nigeriano in fuga dalla sua terra. Le conseguenze del gesto generoso ma affrettato si rivelereranno astrusamente imprevedibili, la strada verso un’accoglienza e un’integrazione reali si mostrerà lunga e piuttosto difficile da percorrere. A dispetto degli esilaranti toni da commedia (rari per un film tedesco) sfoderati da Verhoven, che hanno senza dubbio contribuito allo straordinario successo in patria del film, Benvenuto in Germania! è un film amarissimo, che non fornisce volutamente soluzioni possibili al delicato problema dell’immigrazione, limitandosi a comporre un satirico ma pungente affresco sociale, dall’ipocrisia della media e alta borghesia al mutevole e intermittente impegno civile di un certo elettorato, al dispiegato razzismo o scoperta indifferenza di tutti gli altri. La pellicola, seppure non originale per tema e modalità narrativa (vedi, ad esempio, Almanya – La mia famiglia va in Germania di Yasemin Samdereli), si pone come obiettivo quello di focalizzare ancora una volta l’attenzione critica del popolo europeo (non solo tedesco, quindi) su di una problematica di scottante attualità, passando attraverso il filtro più dolce della commedia. Ci riesce, non senza qualche banalità e stereotipo di troppo, cui contribuisce, non senza colpa, il pessimo doppiaggio italiano, che rende alcuni personaggi (compreso lo stesso Diallo, perno della storia) e dialoghi irrimediabilmente fumettistici.
Barbara Rossi