La nuova programmazione cinematografica dell’anno prosegue, in questo weekend di metà gennaio, con un dramma ambientato nella violenta e ruvida provincia americana e una commedia che, ancora una volta, mette in scena vizi e virtù degli italiani.
Tre manifesti a Ebbing, Missouri, terzo film del regista Martin McDonagh (già autore di In Bruges e 7 psicopatici), si è appena aggiudicato quattro Golden Globe, compreso quello per il miglior film drammatico: narra, in un inestricabile mix di dramma, commedia, thriller con risvolti tragici, la lotta di una donna, Mildred Hayes (una straordinaria Frances McDormand, che curiosamente si cala in un ruolo speculare ma opposto a quello della Marge di Fargo dei Coen, che l’aveva condotta all’Oscar ventuno anni fa), per ottenere giustizia nei confronti della figlia adolescente Angela (Kathryn Newton), violentata e uccisa a Ebbing, paesino della profonda provincia americana, nello stato del Missouri, da bruti rimasti senza nome e impuniti. La battaglia di Mildred – tuta da meccanico e bandana sui capelli, come una sorta di divisa – è violenta e senza esclusione di colpi, come violenta, claustrofobica, razzista è quella porzione di società americana in cui la donna vive ogni giorno. Sotto la patina sonnolenta e le atmosfere fintamente domestiche (come in un altro film dal clima molto simile, Mississippi burning di Alan Parker) covano odi e tensioni razziali mai del tutto superati e vinti (vedi il personaggio del vicesceriffo nero Jason Dixon, interpretato da Sam Rockwell), pregiudizi, conformismi, volgarità e ferocie. A fare da contraltare, c’è uno sceriffo, Bill Willoughby (Woody Harrelson, sempre bravissimo nei ruoli di ambientazione noir), che tenta, in mezzo a tremende incertezze e fallimenti, di compiere il proprio dovere, alla ricerca di un equilibrio individuale e sociale sempre molto difficile da raggiungere. McDonagh racconta la società americana attuale, sempre in bilico tra democrazia e intolleranza, passato e futuro, con serietà, ironia caustica, amarezza e un pizzico di speranza. “È vero è un film politico, ma non nel senso che solitamente si intende. Affronta questioni come il femminismo, la razza, ma per me il cuore del film è la lotta di questa madre. Volevo essere fedele alla sua rabbia, al suo rancore, alla sua perdita, in quel senso il film è politico. Avere una protagonista forte femminile è già una scelta politica, oggi come oggi. La sceneggiatura è stata scritta otto anni fa quindi non parla specificatamente di quello che sta succedendo negli Stati Uniti adesso, ma queste questioni sono in ballo da un po’ e lo saranno ancora nel futuro. È un film politico nella misura in cui parla della nostra società, è stato bello perché conteneva elementi della tragedia greca”.
Guglielmo Pantalei (Carlo Verdone al suo ventiseiesimo film) è il proprietario e gestore di un negozio di articoli religiosi: la sua vita di sessantenne apparentemente soddisfatto di ciò che ha viene buttata all’aria dall’annuncio della moglie Lidia (Lucrezia Lante della Rovere), che dopo quasi trent’anni di serena vita coniugale lo lascia per un altro amore. Qui iniziano i guai (e anche il plot), la tragicomica discesa agli inferi di un uomo (ma anche un “tipo”: molto simile a quello incarnato anni fa dall’attore e regista in Bianco, rosso e Verdone) sensibile, fragile, incerto, senza più ancore di salvataggio o bandierine di riferimento: solo, in un’età ormai matura e di transizione verso un futuro non ipotizzabile. A lanciargli un provvidenziale salvagente arriva, come un vento improvviso e travolgente, Luna (Ilenia Pastorelli, al suo secondo ruolo dopo aver vinto il David di Donatello come miglior attrice per Lo chiamavano Jeeg Robot), giovane romana di borgata, fresca, immatura, incosciente: ma anche in grado di offrire a Gugliemo, nei panni di una sventata commessa sui generis, “un sorso di gioventù”, come affermava a denti stretti il mitico Don Camillo bevendo un bicchiere colmo di olio di ricino ne Il ritorno di Don Camillo. La commedia verdoniana, come spesso accade in opere appartenenti allo stesso genere, vale per quel che mostra, per il divertimento e le eventuali riflessioni che provoca, non certo per il suo finale, tendente a ricostruire un equilibrio, vecchio o nuovo che sia. Qui Verdone ha perso – succede – lo smalto, l’originalità e la verve dei primi anni o anche solo di un decennio fa: le situazioni comiche sono già viste, le battute e i dialoghi già sentiti, non manca qualche caduta di tono, qualche concessione al triviale fine a se stesso. Cosa racconta il regista dell’italiano odierno in Benedetta follia? Quello che ha sempre raccontato, così come il suo padre cinematografico e maestro d’arte Alberto Sordi: e cioè la fragilità, l’ambiguità, la gigioneria, l’astuzia e la dolcezza, l’idealismo e il pragmatismo. Un certo lato da mistero buffo, tutto da ridere. Forse da metabolizzare e superare, per diventare adulti.
Barbara Rossi