In questo secondo fine settimana di giugno, che ci avvicina inesorabilmente ad una stagione cinematografica estiva di solito piuttosto scarsa in titoli e proposte di qualità, tre sono le pellicole che mi sento di segnalarvi.
The Neon Damon di Nicolas Winding Refn, nuovo genio maledetto del cinema danese, vincitore a Cannes nel 2001 per la miglior regia con Drive, è un horror patinato, sanguigno, estremo e violento, com’è nello stile del suo deus ex machina.
Jesse (Elle Fanning) è una giovane e bellissima aspirante modella, divenuta la musa di un magnate della moda losangelino. Nel mondo spietato e ossessivo che le si schiude intorno verrà letteralmente divorata dalla gelosia e invidia di altre esponenti del sesso femminile, pronte a nutrirsi come larve della sua gioventù e bellezza.
Il film, per la sua durezza, per l’eccentricità e visionarietà dello stile, non ha riscosso soverchi consensi al festival di Cannes della scorsa primavera, ma – superata la primaria sensazione di sconcerto e di rifiuto che può suscitare – vale una visione, per ciò che del cinema “postmoderno”, derive comprese, può suggerire.
In nome di mia figlia di Vincent Garenq è un dramma giudiziario preciso e sobrio, accurato nel raccontare un fatto tristemente noto alle cronache francesi, quello della misteriosa morte della quattordicenne Kalinka Bamberski durante una vacanza in Germania con la madre e il patrigno, il medico tedesco Dieter Kromback.
Il padre di Kalinka, André (nel film un misurato ma intenso Daniel Auteuil), nutrendo seri sospetti sul coinvolgimento di Krombach nella morte della figlia oltre che sulle violenze ai danni di altre minorenni, si spese per quasi trent’anni in una dolorosa e contrastata ricerca della verità e della giustizia, combattendo contro ipocrisie e tentativi di insabbiamento del sistema giudiziario francese.
In nome di mia figlia è un’opera che racconta, senza indulgere alla retorica o a un’emozione di superficie, il lato oscuro e torbido dell’uomo, con l’uso di frequenti flashback a evidenziare la perenne oscillazione tra passato e presente di una storia tragica.
Anche L’uomo che vide l’infinito di Matt Brown narra la vera storia del giovane matematico autodidatta Srinivasa Ramanujan (Dev Patel, rivelazione di The Millionaire), che sullo sfondo dell’India coloniale del 1912 decide di inviare le sue scoperte in campo matematico, basi dei futuri studi sulla teoria dei buchi neri, al rinomato professor G.H. Hardy (un ottimo Jeremy Irons), del Trinity College di Cambridge.
Sconcertato dall’accuratezza e profondità delle ricerche di Ramanujan, sebbene non supportate da una preparazione teorica, Hardy lo aiuterà a conquistare il riconoscimento da parte della comunità accademica e un posto di fellow al Trinity College.
La pellicola, in linea con la manifesta tendenza del cinema degli ultimi anni alla produzione di biopic, cioè biografie più o meno complete di illustri figure di artisti o scienziati (vedi, ad esempio, lo Stephen Hawking di La teoria del tutto), ha il pregio di portare alla conoscenza di un più vasto pubblico il genio matematico di Ramanujan, raccontando al contempo la lotta di pochi luminari inglesi, come Hardy, per il superamento delle discriminazioni razziali persistenti, all’epoca, anche in ambito scientifico.
Barbara Rossi