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Con la sua morte il mondo perde un po’ di bellezza. (“New York Times”, 6 agosto 1962)

E’ difficile immaginarsi una Monroe novantenne. Si sa, i Miti non invecchiano, non vengono scalfiti dalle ingiurie del tempo, dal decadimento del corpo dovuto all’età.
Il corpo di Marilyn, poi – all’anagrafe Norma Jeane Mortenson Baker Monroe, nata a Los Angeles il primo giugno 1926 – carnale ed etereo, malizioso e bambino, è stato trasformato dall’industria cinematografica americana prima e poi dalla cultura pop in un simulacro, un simbolo divino di irraggiungibile bellezza e seduzione.
A Marilyn si sottrasse molto: il controllo del proprio corpo, della propria bellezza, manipolati, dati in pasto ai giornalisti, ai fotografi, ai produttori, all’industria spietata dello star system degli Anni Cinquanta: Norma Jeane – quella “bellissima bambina”, come la definì lo scrittore Truman Capote – venne dal primo istante associata a un’altra grande diva hollywoodiana, Jean Harlow, e diventò la dumb blonde, la bionda svampita, l’oca giuliva mangiauomini.
Le venne portata via, in sostanza, la possibilità di essere un’attrice, oltre che una star, e di affermare la propria identità di donna, al di là del modello femminile che incarnava.
Marilyn lottò tutta la vita per riconquistare la libertà sia a livello artistico che personale.
Il cinema hollywoodiano la fissò nell’immaginario collettivo come l’incarnazione di una sessualità esplicita e trionfante, e allora Marilyn la stemperò (in maniera assolutamente nuova per l’epoca) con una forte dose di autoironia, nei personaggi femminili che la resero celebre a livello mondiale: dalla Rose di Niagara alla Lorelei di Gli uomini preferiscono le bionde, dalla Pola di Come sposare un milionario alla Ragazza di Quando la moglie è in vacanza e alla Sugar di A qualcuno piace caldo, i due capolavori di Billy Wilder.
Tuttavia Marilyn sapeva di non essere solo ciò che appariva (“Quel che ho dentro nessuno lo vede. Ho pensieri bellissimi che pesano come una lapide. Vi prego: fatemi parlare!”, scrisse in una poesia): per dimostrarlo al mondo intero, oltre che a se stessa, nel 1955 iniziò a frequentare i corsi dell’Actors Studio di Lee Strasberg, nel disperato quanto illusorio tentativo di sottrarsi alla prigionia delle grandi case di produzione, contribuendo ad inaugurare una nuova era del divismo hollywoodiano classico.
L’esperienza dell’Actors Studio si rivelò fallimentare sia sul piano artistico che privato (il Metodo, facendo affiorare emozioni e ricordi sepolti, esacerbava le sue nevrosi), ma non riuscì ad intaccare la bellezza d’attrice di Marilyn, nonostante l’irreversibile peggioramento delle sue condizioni psicofisiche e delle performance sul set, fino al baratro finale.
Anche nella vita sentimentale Norma Jeane, tra passioni, drammi e amori sbagliati, dal matrimonio con il campione di baseball Joe Di Maggio a quello con il drammaturgo Arthur Miller, sino alle chiacchierate relazioni con i Kennedy, fu alla perenne ricerca di qualcuno che sapesse vedere oltre la maschera che Hollywood le aveva fatto indossare.
Nonostante il rapporto tormentato con il sistema divistico americano, con gli amori e il proprio passato (la madre, Gladys, aveva problemi psichiatrici e la diede precocemente in affido), Marilyn aveva il dono di trasformarsi davanti alla macchina da presa, sublimando angosce e dolori nel contatto con l’obiettivo.

Venuta al mondo quando a Hollywood spopolavano sul grande schermo i volti intensi di Greta Garbo e Marlene Dietrich, star dal fascino androgino e ambiguo delle quali costituì il carnale controcanto, si rivelò sin dagli esordi, come scrive la studiosa Cristina Jandelli, “una declinazione radiosa dell’essere umano che un impasto chimico è in grado di rendere ancora più seducente”.
Si dice addirittura che la sua pelle emanasse una luce, una radiosità particolare.
Dalla notte del 5 agosto 1962, in cui morì in circostanze misteriose, Marilyn Monroe è entrata nella leggenda, per sempre avvolta da quell’alone mitico che spinse Cesare Zavattini a definirla “l’unica attrice che ho amato”.
Il mondo delle arti figurative, della musica e della comunicazione in genere continuano oggi a celebrare nostalgicamente e con qualsiasi strumento mediatico la “povera sorellina minore…la prima oltre le porte del mondo abbandonato al suo destino di morte”, come la cantò Pasolini ne La rabbia.
L’omaggio più commovente a Marilyn da parte della cultura pop contemporanea, che pure ha contribuito a spersonalizzarla (vedi le celebri riproduzioni seriali di Andy Warhol del volto della diva), rimane, nel 1973, quello di Elton John, e della sua Candle In The Wind.
“Goodbye Norma Jean. Your candle burned out long before your legend ever did”.
“Arrivederci Norma Jean. La tua candela si è consumata molto prima di quanto non abbia mai fatto la tua leggenda”.

Barbara Rossi

 

 

 

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