Questo fine settimana di metà aprile ospita il ritorno sul grande schermo di Kim Ki-Duk, vincitore nel 2012 con Pietà del Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia, dove presentò – quattro anni più tardi – proprio Il prigioniero coreano, che noi spettatori abbiamo finalmente modo di vedere in sala in questi giorni. Il protagonista della storia che il regista racconta – specchio fedele e terribile della drammatica divisione ideologica, culturale e sociale che separa la Corea del Nord, oppressa dalla dittatura, e quella del Sud, apparentemente democratica e capitalistica, in realtà espressione di un Potere più ambiguo ma ugualmente feroce – è Nam Chul-woo (l’efficace Ryoo Seung-bum), un poverissimo pescatore nordcoreano. Un giorno disgraziatamente la barca da pesca di Nam sconfina in acque sudcoreane, a causa di un problema al motore: inizierà per lui un’odissea assurda e dolorosa in un mondo straniero e sconosciuto, l’altra parte del suo stesso paese, ma subdolamente ostile. Kim Ki-Duk mostra senza filtri e con il crudo realismo che contraddistingue da diverso tempo il suo modo di fare cinema la straniante e tragica condizione politica in cui la Corea è immersa, denunciandone i paradossi, la violenza, l’acuta mancanza di senso. “Mi sento più sudcoreano o più coreano? Mi sento, semplicemente, coreano.” Il mondo, magari, lo scopre adesso, ma per noi coreani la divisione è una ferita che sanguina da 70 anni. Con Il prigioniero coreano ho voluto mostrare un paradosso: guardate come sono simili Nord e Sud. ‘Là’ c’è la dittatura, ‘qui’ la violenza ideologica. E non si tollera che un povero pescatore del Nord, finito per caso fuor d’acqua, voglia ritornarsene a casa. Non si può demonizzare un intero popolo. Il Nord non è solo la Dinastia dei Kim: la gente viene prima”.
I segreti di Wind River di Taylor Sheridan conclude una trilogia di pellicole incentrate sul tema della frontiera americana (dopo Sicario di Denis Villeneuve e Hell or High Water di David Mackenzie), tutte sceneggiate dal regista. Se nei primi due film a fare da sfondo alla detection erano rispettivamente l’esile striscia di territorio al confine con il Messico e lo stato del Texas, in quest’ultimo ci ritroviamo sperduti nell’immenso, freddo e nevoso Wyoming, all’interno di una riserva indiana che viene macchiata da un brutale omicidio, quella della giovanissima Natalie Hanson (Kelsey Chow). A rinvenire il suo corpo massacrato è Cory Lambert (Jeremy Renner), agente federale addetto al controllo degli animali selvaggi. Da qui inizia la caccia di Renner (che qualche anno prima ha perso una figlia in circostanze analoghe) e dell’inesperta ma leale e coraggiosa recluta dell’FBI Jane Banner a un predatore umano molto più pericoloso e temibile delle fiere in circolazione, un omicida seriale particolarmente efferato. L’esito finale sarà sconvolgente e inaspettato, come il flashback risolutivo. Sheridan conclude il suo trittico sull’isolamento, la solitudine, a tratti la spietatezza dei territori di frontiera americani focalizzando il suo sguardo sull’ancora irrisolto problema della convivenza tra i nativi, confinati da tempo in sparuti e discriminati gruppi ai margini della società, e gli ex colonizzatori bianchi: un’armonia difficile e tutta da costruire, inserita nel lungo percorso di emancipazione e riconoscimento dei diritti delle minoranze etniche, di cui a fare le spese sono in misura maggiore le donne. Un film essenziale e conciso, di silenzi e grandi spazi, di contrasti cromatici (il bianco della neve, il rosso del sangue) e narrativi, che pone domande e suscita risposte inquiete.
Barbara Rossi