Il fine settimana di inizio ottobre esordisce con un superbo e, per certi versi, atipico sequel, proponendoci nello stesso tempo un’opera cinematografica di matrice nazionale di tutt’altro genere ma egualmente coinvolgente.
A trentacinque anni dall’esordio sul grande schermo e dal suo assurgere al rango di vero e proprio film cult, sia a livello estetico che narrativo, compie un grande ritorno in sala Blade Runner, ma nella versione “2049” realizzata da Denis Villeneuve (Arrival) con la supervisione e produzione di Ridley Scott. A Los Angeles, nel 2049, a circa trent’anni dalle vicende narrate nel primo Blade Runner, l’umanità residua è sempre più immersa nella fatiscenza di un mondo andato in frantumi. E’ in azione una nuova generazione di replicanti, prodotta dal novello magnate-santone della bioingegneria Niander Wallace (Jared Leto): perfetti, resistenti, indistruttibili e, soprattutto, obbedienti. L’agente K (Ryan Gosling) è uno di questi, blade runner della polizia losangelina con la missione di porre fine all’esistenza dei pochi replicanti di vecchia generazione ancora in circolazione. Una strana scoperta, fatta nel corso di una missione, lo conduce alle soglie di una rivelazione che potrebbe stravolgere i rapporti di forza tra la comunità dei replicanti e quella umana, così come il mondo sino ad allora conosciuto. La splendida fotografia digitale di Roger Deakins restituisce la glacialità, l’aridità, le atmosfere desolate e vuote, magniloquenti e rossastre di un futuro distopico nato dalla stessa matrice (il romanzo “Do Androids Dream of Electric Sheep?” di Philip K. Dick, 1968) del primo film, con qualche ingenuità in più nel plot, ma anche con maggiore fedeltà al romanzo che inaugurò la cosiddetta fantascienza ‘cyber-punk’. I temi di base sono gli stessi, le domande che stanno a fondamento della presenza umana nell’universo (“da dove vengo, dove vado, quanto mi resta ancora”): la definizione dell’identità, della memoria individuale e collettiva (vedi gli evanescenti ologrammi di Elvis, Marilyn, Sinatra), di ciò che è autentico e di quanto, invece, è da considerarsi fittizio. Di rilievo il cameo prolungato di Harrison Ford-Rick Deckard, che – a dispetto degli anni – non perde fascino e smalto emanati a profusione nel primo film. Un po’ più statico Ryan Gosling, privo anche dell’algida allure di un Rutger Hauer. Ottima pellicola, imponente spettacolo visivo.
Ammore e malavita, musical ‘sui generis’ dei napoletani Manetti Bros (ovvero i fratelli Marco e Antonio Manetti), mette in scena la sceneggiata tragica di Don Vincenzo Strozzalone (Carlo Buccirosso), boss della camorra in crisi dopo una vita criminale e uno scampato attentato. Su esortazione della moglie, donna Maria (Claudia Gerini), accanita cinefila, decide di teatralizzare la sua morte (fittizia), alla maniera di James Bond, per vivere indisturbato l’ultima parte della sua vita. Purtroppo il destino si manifesta sotto le spoglie di Fatima (Serena Rossi), giovane infermiera di Scampia e testimone oculare della sceneggiata. Ciro (Giampaolo Morelli), uno dei due scagnozzi del boss, ha l’ordine di eliminarla: ma, si sa, l’amore è cieco, specialmente quello di Ciro per Fatima. Le conseguenze non tarderanno a manifestarsi. I Manetti Bros raccontano una Napoli canonica, estrema ed eccessiva, solare e generosa, tramite le suggestive contaminazioni del musical e del noir rivisitati ad hoc. Rivive, così, anche grazie alla bravura di tutti i componenti del cast, la commedia dell’arte partenopea all’ennesima potenza, aggiornata e attualizzata in tematiche, tipi e persino musiche, in continua e seducente oscillazione tra nuovo e antico, tra la Napoli “classica” e quella presente e futura. Bel talento realista-visionario della coppia di registi: pellicola puripremiata, lo scorso settembre, alla Mostra del Cinema di Venezia.
Barbara Rossi