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Nel weekend di fine aprile cattura sul grande schermo l’ultimo film di Gianni Amelio, La tenerezza, ambientato in una Napoli di scorci, vicoli, stradine senza uscita, traffico, cieli lontani e troppo alti per poter essere realmente percepiti. L’esistenza di Lorenzo (Renato Carpentieri), anziano ex avvocato del foro di Napoli, come quella dei suoi figli Elena (Giovanna Mezzogiorno) e Saverio (Arturo Muselli), sembra del tutto priva di tenerezza: reduce da un infarto, chiuso nella propria egoistica solitudine, l’uomo non riesce più ad amare neppure i propri figli, né tantomeno il ricordo di ciò che sono stati, bambini da proteggere, da curare. I nuovi vicini di casa, Michela (Micaela Ramazzotti) soprattutto, giovane ed estroversa madre dei piccoli Bianca e Davide, e il marito Fabio (Elio Germano), mostrano una possibile alternativa alla desertificazione dei sentimenti. Ma il destino è in agguato dietro l’angolo. Prigionieri delle proprie corazze emotive i protagonisti de La tenerezza, dal romanzo di Lorenzo Maraone La tentazione di essere felici, è un’opera della maturità incisiva nelle forme ma sfumata nelle conclusioni, che ritrae una società anaffettiva, non priva di braci ancora ardenti sotto la cenere. La macchina da presa di Amelio scandaglia visi e sguardi, la fotografia di Luca Bigazzi li esalta in magnifici e dolorosi chiaroscuri. La tenerezza, in questo film, non si presenta come un miraggio, piuttosto come una strada in salita, una montagna piuttosto difficile da scalare. Non so se è meglio abbinare questa parola a un sentimento o a un gesto, non ci ho mai riflettuto sopra, afferma Amelio. Il titolo, però, è arrivato nel finale, di fronte alla testardaggine di elena nel ricostruire un rapporto con il padre. Ultimamente il papa ha parlato della necessita della tenerezza, unica via che ci porta alla felicità. Questo è l’unica difesa di cui abbiamo bisogno contro l’ansia. Oggi siamo prigionieri di un mondo fatto di trappole e inganni, di forze torbide che il film lambisce. Questa storia ci serve per ricordarci la necessità del coraggio di non essere timidi nei gesti di tenerezza, anche se contrasta con il nostro voler essere forti a tutti costi.

In The Circle, di James Ponsoldt, Mae Holland (Emma Watson) è una ragazza alle prese con un’estrema situazione di indigenza familiare. Il padre ha la sclerosi multipla, lei stessa è precaria in un call center. Grazi all’intervento dell’amica Annie (Karen Gillan) Mae viene assunta tra i cento nuovi dipendenti dell’azienda The Circle, una sorta di comunità orwelliana che condivide tutto, dal lavoro quotidiano a distrazioni e svaghi, organizzata dai due direttori   Eamon Bailey (Tom Hanks) e Patton Oswald (Tom Stenton). Pellicola non completamente riuscita, nonostante l’impegno della Watson e di Tom Hanks, interprete “per tutte le stagioni”, The Circle mette in scena una realtà distopica, un “Grande Fratello” estremamente pervasivo e social, dove le informazioni vengono sfruttate per creare asservimento, consenso e dipendenza. Si tratta di un tentativo di riflessione, comunque apprezzabile, sulle dinamiche della democrazia di massa, sui modelli comunicativi del villaggio globale, non privi di ambiguità, scorrettezze e devianze.

Kate (Lily-Rose Depp) e Laura (Natalie Portman) Barlow si trovano a vivere la Parigi bohemien di fine anni Trenta, impegnate nel ruolo di medium in un giro internazionali di rappresentazioni. Grazie all’incontro con il produttore cinematografico André Korben (Emmanuel Salinger, che rispecchia l’autentica figura dell’impresario ebreo Bernard Natan), le due sorelle andranno incontro a un’esperienza ai confini della realtà: registrare su celluloide la “fisicità” di ciò che è apparentemente irrapresentabile, ovvero un’entità extracorporea. Con Planetarium Rebecca Zlotowski, al suo terzo film, ci affascina con un film che vuol essere quasi una meditazione filosofica sui limiti e i confini del visibile, della rappresentazione cinematografica, del rapporto tra aldiquà e aldilà. La seduzione è data dalle atmosfere oniriche, dal gioco sottilmente inquietante e misterioso di segni, simboli, rimandi, vaghe presenze, testimonianze semitangibili di un Altrove ancora totalmente sconosciuto. Qualche punto debole nella sceneggiatura rimane, qualche irresolutezza; forse la mancanza di quel pizzico di coraggio artistico che avrebbe elevato il film a meditazione sull’uomo e sulla trascendenza, oltre la dimensione intimista del rapporto complesso ma solido tra due sorelle.

Barbara Rossi

 

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