Sandro (Filippo Scicchitano) e Luciano (Giovanni Anzaldo) lavorano come camerieri, ma coltivano altri sogni: il primo, in particolare, vorrebbe dare sfogo alla sua passione per la scrittura. I due amici decidono, quindi, di emigrare a Cuba, dove aprono un baracchino sulla spiaggia, a basso costo e senza la necessità di ottenere troppe licenze. A Cuba Sandro e Luciano faranno la conoscenza di Nora (Sara Serraiocco), emigrata sui generis con una propria, complessa storia di vita alle spalle, e Euro60 (Nino Frassica), siciliano verace con una propria, bizzarra ma autentica visione del mondo. Dalla trasmissione di Radio 2 basata sul racconto dei giovani che sono andati all’estero per trovare condizioni di lavoro e di vita migliori – condotta dallo stesso Veronesi con Massimo Cervelli – Non è un paese per giovani traspone in immagini l’incertezza, il senso di precarietà, ma anche la voglia di fare e l’energia delle nuove generazioni, insieme allo smarrimento non ancora domato di quelle precedenti, anch’esse impegnate a sbarcare il lunario in un’Italia priva di ammortizzatori sociali come di stimoli creativi. A parte il fin troppo abusato richiamo, nel titolo, al film originale dei fratelli Coen (Non è un paese per vecchi, 2009), il film di Veronesi ci parla, in realtà, di un’Italia che non appartiene più ad alcuna stagione della vita delle persone, costrette a cercare nuovi orizzonti esistenziali e professionali altrove. L’approccio al tema è serio e diligente, l’atto di denuncia motivato e autentico; Veronesi ha oramai maturato, con il tempo, un ottimo approccio alla regia e all’elaborazione delle dinamiche narrative. L’unica pecca del film è quella di emanare un profumo di già visto (pensiamo ai vari racconti di giovinezze difficili prodotte, ciascuno a modo proprio, dai fratelli Muccino, ad esempio) e di scivolare un po’ troppo, sul finale, nell’imbuto un po’ retorico della commedia leggera. Ma l’intenzione è buona.
Paul Verhoeven (Atto di forza, Basic Instinct) prosegue con Elle – tratto dal racconto Oh… di Philippe Djian – il suo viaggio all’interno di una violenza che non è soltanto fisica, carnale, ma anche – e forse prima di tutto – psicologica, mentale, interiore, per portarne alla luce le manifestazioni più esteriori e cercare di comprenderne le origini più profonde. Michelle (Isabelle Huppert), a capo di una ditta di produzione di videogiochi, è una donna forte, affermata nel lavoro, in grado di gestire con la necessaria energia sia la vita professionale che quella privata. Dopo aver subito una violenza carnale nella sua abitazione, Michelle decide di continuare a vivere normalmente, non facendo parola dell’accaduto con alcuno. Quando, però, lo sconosciuto stupratore si ripresenta, inizia tra i due un lento, ambiguo e inarrestabile gioco di seduzione e tortura.
Il film parte bene, con lo stile e l’atmosfera di un dramma intimista di ispirazione truffautiana, aggrovigliandosi in seguitosu se stesso, girando a vuoto, nell’incertezza di una storia che si mantiene in bilico tra commedia e dramma, tra moralismo e scandalo. Il punto di luce e di forza, il nucleo propulsore e catalizzatore del racconto è senz’ombra di dubbio “elle”, Michelle-Isabelle Huppert, binomio indissolubile, gran carattere d’attrice-personaggio, motivo d’attrazione e significato ultimo della narrazione.
Dopo una lunga malattia, e dopo il racconto – poetico e terribile insieme – della Grande Guerra ne torneranno i prati (2014), riapproda alla regia un vero e proprio Maestro del cinema, Ermanno Olmi, con vedete, sono uno di voi (in programmazione al Cinema Teatro Macalle’ di Castelceriolo), documentario dedicato alla figura del cardinale Carlo Maria Martini. Olmi firma regia, sceneggiatura e voce fuori campo, che narra come in prima persona la vicenda umana e religiosa dell’arcivescovo di Milano; insieme alla sua voce c’è anche quella di Marco Garonzio, giornalista del Corriere della Sera che ha seguito per anni la parabola di Martini, e che qui troviamo anche nel ruolo di co-sceneggiatore. Il film, pur nel consueto rigore figurativo e contenutistico consueto del regista bergamasco, è animato da un profondo, intenso afflato religioso, reso manifesto dalla fotografia di Fabio Olmi, come dalle musiche verdiane associate a quelle composte per l’occasione da Fabio Vacchi e Paolo Fresu. Il cardinal Martini emerge a tutto tondo dal racconto, a rilievo sullo sfondo del terrorismo, degli anni di piombo, della crisi economica, della corruzione e di tutti i mali d’Italia e del mondo, con uno spessore umano, prima ancora che spirituale. Eleganza, saggezza di un grande vecchio di cinema e vita, il quale giustifica, per la seconda volta, la sua scelta di scrivere il titolo del film in lettere minuscole con una cogente motivazione: “perché i maiuscoli danno fastidio”.
Barbara Rossi