“Captain Fantastic” è il secondo lungometraggio dell’attore Matt Ross (“28 Hotel Rooms”, 2012), che – sotto le mentite spoglie di una commedia divertente e, a tratti, esilarante – trova il coraggio di affrontare il delicatissimo tema dell’educazione dei figli, soprattutto quando si trovano ad attraversare l’accidentata terra dell’adolescenza.
Ben (un Viggo Mortensen in stato di grazia, eccentrico quanto basta ma nient’affatto caricaturale), padre di sei figli, ha scelto di farli crescere lontano dalla civiltà, in una foresta nordamericana. Qui, alla stregua dell’Emilio protagonista del saggio rosseauiano, i ragazzi studiano le scienze e le lingue, la letteratura, la storia e la musica, sviluppando anche, attraverso la caccia, le proprie doti fisiche. La scomparsa della madre, con la necessità di fare ritorno nella società degli uomini, costringerà l’intera famiglia, e soprattutto Ben, a rivedere le proprie posizioni educative, sul rapporto con l’Altro e con il mondo.
“Captain Fantastic” è un film intelligente, ben orchestrato a livello di narrazione, con il ritmo che si addice a una commedia, ma con la sagacia e la profondità di un cinema indie, giovane e a basso costo, che non rinuncia a raccontare le ricchezze e le contraddizioni di un’America in crisi, ma anche in continua evoluzione e scoperta di sé.
In “Una vita da gatto” – prodotto dalla EuropaCorp del regista francese Luc Besson – Barry Sonnenfeld (“La famiglia Addams”; “Men in Black”) prende spunto dalla vasta filmografia con protagonisti i seducenti felini (dagli “Aristogatti” e “F.B.I. – Operazione gatto” in poi) per architettare una pellicola dal vago sapore disneyano, tesa ad accontentare un pubblico familiare che voglia, però, anche riflettere su alcune dinamiche che innervano sia il suo stesso corpo che la società odierna.
Tom Brand (Kevin Spacey, sempre più a suo agio sia nel retroterra grottesco dei ruoli comedy sia nella densità di quelli drammatici) è un grande industriale, ricchissimo, con ambizioni adeguate al suo ego: sogna, infatti, di costruire il grattacielo più alto di Manhattan, che deve a tutti i costi superare quello rivale di Chicago. Assorbito dai propri deliri narcisistici, Tom non ha il tempo per accorgersi delle richieste affettive e pratiche dei due figli, David (Robbie Amell) e Rebecca (Malina Weissman). Quando quest’ultima gli chiede in dono un gatto per il suo undicesimo compleanno, Tom, pur odiando i felini, ne acquista uno (Mister Fuzzypants, letteralmente “pantaloni stinti”) da Felix Perkind (Christopher Walken), ambiguo proprietario di un negozio di animali. La vis comica scaturisce da uno snodo cruciale nel plot: Tom, in seguito a un incidente, scivola nel coma profondo, mentre il suo spirito entra nel corpo di Mister Fuzzypants, con i risvolti paradossali del caso.
“Una vita da gatto” non è una pellicola con eccessive ambizioni: nonostante la produzione d’autore francese, rientra come prodotto tipico nella classica industria dell’entertainment americana, con tutti i suoi limiti estetici e narrativi. Vale, soprattutto, per l’esilarante interpretazione di Spacey, e per trascorrere una leggera serata prenatalizia.
Con “Babbo bastardo 2” Mark Waters (“Mean girls”, “Quel pazzo venerdì”) cerca di emulare, non riuscendovi del tutto, i fasti da black comedy politicamente scorretta del film precedente, targato fratelli Coen a livello produttivo.
Billy Bob Thornton si cala nuovamente con grande sicurezza e talento d’attore negli irriverenti e diabolici panni di Willie Soke, questa volta alle prese con il tentativo di scassinare la cassaforte di un ente che si prende cura dei bambini orfani. Sempre avvezzo al bere, alle battute mordaci e oscene, al quotidiano egoismo di chi non ha più nulla da perdere, Willie in questo secondo episodio viene affiancato dalla madre Sunny (una spietata e straordinaria Kathy Bates), a cui facilmente lo spettatore può ricondurre il disastro emotivo ed affettivo della sua esistenza.
Solo la presenza di Thurman Merman (Brett Kelly), ragazzino in evidente sovrappeso ma sempre allegro e gioioso, rischierà di far maturare la personalità infantile di Willie, regalandogli la capacità di amare.
Nonostante la bravura di Thornton e del resto del cast, “Babbo bastardo 2” ha una struttura esile, peccando in dialoghi e capacità narrativa generale.
La denuncia della spietatezza di un sistema capace di generare personaggi come Willie rimane, poco esaltata, però, da una costruzione della messinscena debole e scialba.
Manca la mano ferma e crudele dei Coen, l’unica in grado di fare la differenza in questo controcanto “nero” di Natale.
Barbara Rossi