Il weekend di fine novembre propone Snowden, l’ultima pellicola firmata Oliver Stone, dal libro del giornalista Luke Harding. La vicenda, assolutamente reale, è complessa, sia per quanto riguarda gli snodi storico-politici di quanto accadde, sia per i retroscena della produzione del film.
Edward Snowden (Joseph Gordon-Levitt) è un giovane informatico, ex tecnico della Cia e consulente per la NSA: nel 2013, dalla sua camera d’albergo a Hong Kong, rivela alla documentarista Laura Poitras e al quotidiano “The Guardian” l’esistenza di programmi segreti per il controllo di massa, creati dall’intelligence statunitense e altamente lesivi della segretezza delle comunicazioni interpersonali e della privacy degli individui.
L’opera di Stone, con la buonissima interpretazione di Gordon-Levitt, ruota intorno a questo nucleo narrativo, ponendo – come spesso nel suo cinema duro e coraggioso, antiretorico – più di una domanda: sulla fedeltà alla patria, sull’intreccio tra corruzione e politica, sul presunto diritto di una grande potenza mondiale a violare la tutela dei dati e delle esistenze private degli individui in nome di una sbandierata sicurezza nazionale. Anche lo stile, potente, persino magniloquente, a tratti, non si discosta da quello cui Stone ci ha abituati in oltre trent’anni di carriera.
L’ambiguità – anche qui, vera o presunta tale – consiste nella complicata rete di relazioni e negli intrecci produttivi che stanno alle spalle della macchina del film.
Al soggetto contribuisce anche, oltre ad Harding, Anatolj Kucherena, legale russo di Snowden – assoldato da Putin stesso e responsabile di una sezione del Fsb, l’organismo di spionaggio russo – che contatta personalmente il produttore Moritz Borman, per proporgli una trasposizione dal suo romanzo Il tempo della piovra.
Lo stesso Stone risulta, probabilmente non a caso, amico e collaboratore cinematografico del premier russo, che gli affida un documentario molto retorico sull’Ucraina e, in Snowden, la parziale, velata difesa della politica internazionale del Cremlino.
Al di là di queste ambiguità di fondo, Snowden rimane comunque un ottimo lavoro, l’ennesimo esempio di come Stone sia in grado di trattare la cronaca e la Storia sul grande schermo, trasformandole in puro cinema.
Molto divertente, una favola d’animazione tenera, delicata e fresca, è Palle di neve, dei canadesi Jean-François Pouliot e François Brisson. Il film racconta con mano leggera ma serietà di intenti e poesia visiva i piccoli grandi drammi quotidiani, le gioie e i dolori, le crisi e le incertezze legate alla crescita di un gruppo piuttosto eterogeneo di pre-adolescenti.
Nella storia il coinvolgimento degli adulti, i genitori della banda di ragazzini, è deficitario, assente: simbolo di una difficoltà relazionale tra generazioni estremamente attuale, ma anche espressione della fatica del diventare grandi, che è spesso solitaria.
Sophie e la piccola Lucie, sorelle, sono andate a vivere da poco in un piccolo villaggio canadese, innevato come una cartolina natalizia, ma che concede poche occasioni per fare amicizia con altre ragazze: i maschi sono la maggioranza, ma risultano noiosi e prevedibili.
Tutto cambia quando finisce la scuola, e si decide di organizzare una battaglia di palle di neve, della durata di due settimane. I ragazzi si dividono in due agguerritissime squadre, capitanate da Sophie e Luc, undicenne con una storia di sofferenza e lutto alle spalle. Il gioco si fa duro, e serio, quando la posta è in gioco è la conquista di un piccolo forte, che può condurre a conseguenze impreviste e spiacevoli.
Anche l’aspetto grafico della pellicola – remake di un’altra opera canadese del 1984, La guerra dei cappelli di André Melançon – è estremamente curato, nella semplice linearità che caratterizza le figurine d’animazione, scabre ma comunicative.
Sotto l’aspetto infantile e allegro, come solitamente accade, c’è una storia serissima, dalle molteplici voci e valenze. Non solo per bambini.
L’ultima proposta cinematografica di questo fine settimana è rappresentata da Agnus Dei, della regista francese Anne Fontaine (Coco avant Chanel, Two Mothers, Gemma Bovery) sin dagli inizi della sua carriera dedita al racconto del femminile.
Qui la Fontaine racconta il dramma tutto carnale, ma che diviene emblematico, alla fine, del rapporto luce-tenebra e della scelta morale corrispondente, vissuto da una comunità di suore in un convento benedettino, nella Polonia del 1945.
Mathilde Beaulieu (Lou de Laage), giovane studentessa di medicina facente parte della Croce Rossa francese, viene inviata in Polonia per assistere i sopravvissuti francesi al secondo conflitto mondiale. Un giorno le chiede aiuto una suora polacca, provieniente da un convento vicino: Mathilde viene, così, a conoscenza di una realtà terribile e dolorosa, la violenza perpetrata ai danni di sette religiose, ora incinte, da parte dei militari sovietici. Grazie anche al rapporto che si instaura con suor Maria (Agata Buzek) in grado di parlare il francese, Mathilde instaurerà con le abitatrici del convento un rapporto profondo, in grado di superare ritrosie, blocchi emotivi, differenze di vita e di impostazione culturale, oltre che di aiutare a metabolizzare un evento difficile da accettare facendolo rientrare in un disegno divino.
Anne Fontaine costruisce, con i ritratti femminili qui proposti (eccellenti le interpretazioni di Agata Buzek e Agata Kulesza, la madre superiora), la pellicola migliore della sua carriera: una storia – ispirata a Les Innocentes di Madeleine Pauliac, diario di un medico francese vissuto in Polonia durante la guerra – drammaticamente intensa, eppure rarefatta nello stile, un arabesco di silenzi, di sguardi, di prossimità e lontananze, di luminosità improvvise come folgorazioni e penombre inquiete ma feconde. Una storia di sofferenza estrema, e dell’unica redenzione e speranza di vita possibile in quel contesto: quella che nasce dalla comunione tra anime e identità femminili, al di là di ogni barriera ideologica o religiosa.
Barbara Rossi