In questo weekend di metà novembre prosegue la programmazione sul grande schermo de “La ragazza del treno”, di Tate Taylor, tratto dal bestseller della scrittrice inglese Paula Hawkins.
Rachel (Emily Blunt), giovane donna alle prese con problemi di alcol e con la fine del suo matrimonio, va al lavoro ogni mattina in treno, immaginando le vite segrete degli abitanti delle villette residenziali che vede scorrere dal finestrino. La sua attenzione viene attratta in particolare dalle abitudini domestiche di una giovane coppia, che appare molto affiatata. Un giorno d’estate Megan (Haley Bennett), la seducente moglie di Scott Hipwell (Luke Evans), oggetto privilegiato dell’osservazione di Rachel, scompare misteriosamente e quest’ultima si trova a fare i conti con la propria memoria e con un senso di colpa indefinito.
“La ragazza del treno” è una delle molte trasposizioni cinematografiche non pienamente riuscite: è, ovviamente, impossibile – data la diversità dei due linguaggi, quello scritto e quello visivo – ragionare in termini di assoluta fedeltà, tuttavia il risultato finale in questo caso poteva essere migliore.
Taylor banalizza e condensa malamente la storia della Hawkins, puntando sugli aspetti di maggiore attrattiva per lo spettatore: la condotta sessuale e sentimentale ambigua di Megan, la confusione mentale di Rachel, l’intrigo con sorpresa finale di una storia in cui si intrecciano fili narrativi disparati e spesso opposti. Le protagoniste femminili, compreso il personaggio di Anna (Rebecca Ferguson) non sono rese con la medesima, ambigua intensità del romanzo. Nella trasposizione i luoghi della vicenda vengono spostati da Londra a New York, ma questo cambiamento di ambientazione non serve in ogni caso a vivacizzare il plot.
“Genius”, opera prima di Michael Grandage racconta – dalla biografia di A. Scott Berg, “Max Perkins: Editor of Genius” – l’incontro e il rapporto complicato tra Max Perkins (Colin Firth), editore newyorkese dei grandi autori di successo degli anni Venti, da F. Scott Fitzgerald a Ernest Hemingway, e il genio dal carattere ombroso e irto Thomas Wolfe (Jude Law), autore che con i suoi scritti influenzò la beat generation americana.
La storia ruota con grande perizia ed equilibrio narrativo – non si tratta di un biopic, tra l’altro – intorno alle dinamiche di questo incontro e del lavoro collaborativo che ne scaturì, finalizzato alla revisione e pubblicazione del romanzo di Wolfe, “O Lost”.
Firth e Law, ottimi nei rispettivi ruoli, intrecciano con efficacia personaggi e stili di recitazione, dando vita a un duetto affiatato, cui fa eco la figura di Aline Bernstein, interpretata con algida bravura da Nicole Kidman. Splendida, in costumi e ambienti, anche la ricostruzione d’epoca.
Con “Fai bei sogni”, dal romanzo omonimo del giornalista Massimo Gramellini, Marco Bellocchio, grande autore internazionale, sin dagli anni Sessanta testimone spesso controcorrente delle trasformazioni e aberrazioni della nostra società (vedi “I pugni in tasca”, “Sbatti il mostro in prima pagina” e il recente “Bella addormentata”, sul caso di Eluana Englaro), si cala con rispetto ma anche grande forza narrativa in una vicenda autobiografica difficile e dolorosa.
Il piccolo Massimo (Valerio Mastrandea) perde a nove anni la madre, con la quale ha sempre avuto un rapporto intenso ed esclusivo: alla sofferenza per la perdita si aggiungono gli effetti, deleteri per la psiche di un bambino, della cortina di omertà fatta scendere sulla scomparsa dai parenti di Massimo, finalizzata a proteggerlo da una verità non semplice da raccontare.
Bellocchio adatta per il grande schermo lo scritto di Gramellini, regalandogli un tono più amaro, una cupezza esistenziale che nel romanzo è sopita dall’afflato sentimentale di cui l’autore ricopre personaggi e circostanze: la descrizione della società torinese di fine anni Sessanta e Novanta rispecchia, con i suoi perbenismi e ipocrisie, una situazione più generale, che comprende l’Italia intera.
Poi c’è il lato più intimista della storia, che Bellocchio pone in essere attraverso poche scene fondanti, oggetti simbolici, assenza di gesti e vuoti fisici ed emotivi: com’è nel suo stile ruvido ma vibrante ed essenziale.
“Fai bei sogni” è una pellicola con forse maggiore potenza narrativa dell’opera da cui è tratta: una trasposizione originale, ma che non tradisce la fonte.
Bravissimi Fabrizio Gifuni e Roberto Herlitzka, rispettivamente nei ruoli di Paolo ed Ettore.
Barbara Rossi