In questo weekend di fine ottobre, preludio della festa di Halloween, non può mancare sugli schermi un horror: si tratta di Oujia-L’origine del male di Mike Flanagan, buon artigiano del genere e già autore dell’apprezzato Somnia (2015). Il tema portante del film – prequel della pellicola omonima diretta da Stiles White nel 2014 – prevedibilmente è quello della casa stregata, con un’ambientazione nella Los Angeles del 1967, dove facciamo la conoscenza di Alice Zander (Elizabeth Reaser), che per guadagnarsi da vivere si spaccia per sensitiva, aiutata dalle figlie Lina (Annalise Basso) e Doris (Lulu Wilson). La decisione di servirsi della speciale tavoletta Oujia per inscenare la presa di contatto con i defunti, l’uso inquietante ed illecito che ne fa Doris, condurranno le protagoniste della storia a esiti soprannaturali e funesti. Flanagan dimostra di conoscere molto bene le regole dell’horror, e fa buon uso di espedienti tecnici e narrativi: sa contestualizzare il racconto, immergendolo nella concretezza della storia americana di fine anni Sessanta, dalla conquista della luna agli scontri razziali. Ben delineato risulta anche il fascio di relazioni tra i personaggi, denso di implicazioni non banali. Predomina su tutto, alla fine, la paura, l’inquietudine sottile per ciò che non si vede ancora o che sta per accadere: ingrediente indispensabile in un’opera come questa, in cui non viene affatto a mancare.
The Accountant di Gavin O’Connor (Warrior, 2012), con il divo Ben Affleck nei panni di Christian Wolff, geniale matematico autistico, contabile occulto di alcune associazioni malavitose, che si fa trascinare nel gorgo di una vicenda intricata e pericolosa, è un action movie in piena regola, che vive di sparatorie, inseguimenti, fughe e pseudo-colpi di scena. Affleck, totalmente in parte con il suo viso splendidamente inespressivo, regge con rude vigore il ruolo dello scienziato asservito al male ma solo, eroe ambiguo e incompreso, tradito dalla famiglia e dalla società. Sullo sfondo, l’America piegata ai poteri forti, covo di latitanti e trafficanti, di raggiri e piani criminali. Il resto, il plot, lo stile, è abbastanza prevedibile e banale: evidentemente non si è riusciti a fare di più, nonostante la fin troppo densa sceneggiatura di Bill Dubuque.
Pierfrancesco Diliberto, in arte Pif, torna alla regia cinematografica dopo il buon successo e le critiche positive di La mafia uccide solo d’estate, il suo esordio del 2013. A differenza del primo film, in cui la presenza del cancro mafioso in Sicilia veniva raccontata con l’originalità di sguardo di un bambino, e con sensibile, acuta intelligenza e senso della narrazione, qui il racconto della storia e delle sorti d’Italia dall’arrivo degli alleati in poi, con particolare riferimento ancora una volta a Cosa Nostra, risulta meno convincente. Nella New York del 1943 il giovane Arturo Giammarresi (Pif) coltiva il desiderio di sposare la bella Flora (Miriam Leone), purtroppo già promessa sposa al figlio del braccio destro del boss Lucky Luciano (Rosario Minardi). Per giungere al sospirato obiettivo Arturo decide di trasferirsi in Sicilia per chiedere la mano di Flora direttamente a suo padre: finirà per arruolarsi nelle fila dell’esercito americano, prossimo allo sbarco, incrociando il proprio destino con quello degli abitanti del paesino di Crisafulli, tra idoli religiosi (il culto della Madonna) e profani (il boss locale). La confezione di In guerra per amore è molto curata, tra scenografie, riprese, ambientazioni, situazioni: la narrazione ha qualche caduta, qualche vuoto di senso, la ripetitività dello sguardo ad altri film, ormai entrati nell’immaginario collettivo (e dunque anche del regista); da Baaria a Miracolo a Sant’Anna. Rimane, comunque, un buon film, dove la commedia sottende un discorso molto più serio: non è casuale, in questo senso, la dedica a Ettore Scola.
Barbara Rossi