In quest’ultima domenica di novembre, in attesa del menu’ cinematografico di Natale, il grande schermo ci propone, per cominciare, un film dal forte impegno civile e sociale: Detroit di Kathryn Bigelow ricostruisce in 143 minuti ad alta tensione e densità narrativa la rivolta della comunità afroamericana avvenuta nel ghetto di Detroit tra il 23 e il 27 luglio 1967, a seguito di un intervento repressivo e violento della polizia in un locale sprovvisto di licenza per la vendita di alcolici. I tumulti di quelle giornate portarono a un bilancio finale di 43 morti e di un migliaio di feriti: il momento culminante e più drammatico si concretizzò nel sequestro da parte dei militari americani di un gruppo di giovani, uomini e donne bianchi e di colore, all’interno dell’Algiers Motel, episodio che rischiò di far crollare sotto l’accusa di brutalità e maltrattamenti l’intero apparato militare e governativo americano. La Bigelow, forte del suo stile ruvido, sanguigno, diretto, franco sino all’eccesso e all’iperrealismo estetico, ci fa entrare attraverso la sua camera a mano nel vivo, nel sangue, nell’orrore di un’altra storia, come tante, poco raccontata dalla Storia ufficiale, approfondendo – come molte altre pellicole nell’ultimo periodo (vedi ad esempio 12 anni schiavo, Django, 13th) – il complicato tema della segregazione razziale in America, ferita ancora aperta, dolorosa, di cui è difficile rintracciare le origini autentiche e profonde. Detroit è un film con un apparato narrativo importante, robusto, solido, con una sua voce fortissima, un grido di denuncia, di indignazione: il cast di attori è superlativo, da John Boyega a Algee Smith. A tratti, la Bigelow sembra perdersi all’interno del caos, delle lotte, della violenza spesso gratuita e fine a se stessa di quei momenti: una deriva fisiologica, senza colpa, quando si tratta di mettere in scena il lato aberrante dell’Uomo.
Giorgio Selva (Claudio Bisio), affermato giornalista televisivo, ha un rapporto difficile, come spesso accade oggi (e come già accadeva in passato), con il figlio adolescente Tito (Gaddo Bacchini), “diviso” con l’ex moglie Livia (Sandra Ceccarelli). Tito, come la maggior parte dei ragazzi della sua età, vive in un mondo a parte”, sconosciuto ed estraneo al padre, fatto di giri a vuoto, dentro se stesso e con gli amici, di vagabondaggi, sconclusionatezze, desideri impossibili, miti, riti, illusioni, sogni. Di innamoramenti, che mutano solo per poco, l’apparente passività di giornate sempre uguali, la ragnatela dei vagheggiamenti e degli abbandoni. Giorgio, alle prese con il suo tempo “piccolo”, infinitamente meno dilatato di quello del figlio, prova, a modo suo, a comprendere i problemi, le ansie, i pensieri, le emozioni di una generazione che ha invece ancora “tutta la vita davanti”. Ne Gli sdraiati, tratto dall’omonimo romanzo bestseller di Michele Serra, Francesca Archibugi porta avanti un ininterrotto ritratto dell’adolescenza, iniziato ai tempi di Mignon è partita (1988) e proseguito negli anni con Il grande cocomero e L’albero delle pere. Attraverso il consueto stile acquerellato, attento alle sfumature, gentile, rispettoso di storie, personaggi e destini, la regista romana continua a interrogarsi sui bisogni, i limiti, le potenzialità di una fase dell’esistenza che rappresenta per il mondo adulto una terra di mezzo misteriosa, irta, complessa, difficile da esplorare senza gli strumenti di viaggio adatti. Che nessuno, ovviamente, possiede. In questo senso, gli adulti e i giovani protagonisti de Gli sdraiati non sono molto diversi, nei loro blocchi emotivi e smarrimenti, da quelli tratteggiati in Mignon è partita e successivi. Una commedia godibile, lieve, acuta, su adolescenza, età adultà, passaggi di vita, che sagacemente non offre risposte preconfezionate, ma si pone e pone innumerevoli domande.
Barbara Rossi