Sempre con più frequenza ci capita di guardare un film o una serie tv e di imbatterci nella frase “basato su una storia vera”.
Dalle biografie alle storie più o meno tristi, vicende di cronaca e ancora, talvolta, storie che ci sembrano surreali anche solo immaginare, da sempre l’industria del cinema si “propone” di fare anche questo: raccontare, dare voce (o meglio, ridare vita) a storie passate, vissute, appunto.
Storie esemplari che meritano di essere ricordate. Storie che, al contrario, andrebbero dimenticate ma che forse “meritano” di essere tenute vive nella memoria delle persone per evitare che stessi sbagli possano essere compiuti nuovamente in futuro. Ancora, storie che semplicemente sono reputate interessanti e quindi perché inventare una bella storia quando si può raccontare, colorandola di nuovi particolari e sfumature, una storia altrettanto bella ma vera, già successa, con la possibilità di narrarla da un nuovo punto di vista?
Ma quali sono i lati positivi e negativi di questa formula di “intrattenimento”?
È un dato di fatto che il pubblico giovane passi una parte consistente del tempo libero che ha a disposizione facendo zapping. Tendenzialmente si parla sempre di uno “zapping selezionato”. Con questo intendo dire che, tra le numerose piattaforme disponibili (perché i canali in chiaro non sono in grado di “catturare” l’attenzione dei più giovani, non ispirano più fiducia, almeno la maggior parte delle volte), da Netflix ad Amazon Prime, bene o male si è sempre già “indirizzati” nella scelta di ciò che si vorrebbe vedere per passare il tempo. E non è certamente un male che nell’elenco delle “storie” da scegliere ve ne sia almeno una realmente accaduta. Perché?
Prima di tutto, questo è un modo rapido ma efficace per informarsi su qualcosa che magari non si conosce. Dico efficace perché la godibilità del film o di una serie tv è sicuramente maggiore rispetto alla godibilità di un documentario che, per quanto possa consentirci di scoprire qualcosa di nuovo, lo fa in una modalità molto più scolastica.
Per esempio, è grazie alla serie tv Netflix “When They See Us” che molti giovani sono venuti a conoscenza della storia dei ragazzi passati alla storia come “I cinque di Central Park” rispolverando una vecchia storia di cronaca nera statunitense con la maggiore visibilità degli anni ‘90 che non tutti ricordavano, sollevandone nuovamente i dubbi e i sospetti che per anni sono girati intorno al funzionamento della giustizia.
Film come “Il giovane Favoloso” (Leopardi) o “Dante” permettono di attraversare la vita di pilastri della cultura italiana in un modo del tutto nuovo, avvicinandoli al nostro tempo e mostrandone il lato umano che si nasconde (o viene spesso tralasciato) dietro l’aspetto meramente scolastico.
Ma cosa succede quando una delle serie più viste su Netflix al momento racconta la storia di Jeffrey Dahmer, serial killer del Wisconsin che negli anni ’80 ha ucciso in modo macabro 17 (se non più) giovani ragazzi? Cosa succede quando un prodotto del genere è acclamato a tal punto che gli occhiali del serial killer sono stati messi in vendita a 150mila dollari come fossero un oggetto di culto?
Il limite tra l’intrattenere e l’insegnare a quel punto diventa molto labile e la possibilità di poter spettacolarizzare un dolore reale è immensa. Lo stesso rischio che si corre quando, per esempio, si decide di fare un film su un caso di cronaca di fama mondiale, risolto tra i dubbi, come quello di Yara Gambirasio.
Quanto è giusto poi, ancora, in queste narrazioni omettere dei dettagli? O aggiungere, invece, elementi “decorativi”?
Ci sono delle circostanze in cui queste questioni possono essere particolarmente spigolose.
Dunque la domanda sorge spontanea: ci sono più lati positivi o negativi nel raccontare (dunque, quasi inevitabilmente, romanzare) storie realmente accadute? Sarebbe meglio lasciare spazio alla più sconfinata fantasia o è invece fondamentale far sì che questo tipo di comunicazione resti viva?
Ludovica Italiano