Le precedenti settimane hanno visto riscaldarsi i conflitti nel Pacifico per la piccola Taiwan, già Formosa. Lo spazio aereo dell’isola è stato più volte violato da aerei militari cinesi. Lo scorso 13 aprile oltre 25 jet dell’aeronautica cinese, fra cui 4 bombardieri con capacità nucleare, sono stati identificati all’interno della difesa aerea di Taiwan, costituendo così la più grande incursione aerea subita nella storia dell’Isola. «In questo contesto, sarebbe un grave errore per chiunque cercare di cambiare lo status quo con la forza» ha avvisato Antony Blinken, segretario di stato statunitense, durante una conferenza stampa.
Washington e Taipei, non solo “un giro di valzer”
La situazione è in effetti molto complicata. Da un lato c’è la Cina che considera Taipei come dissidente, ne nega l’indipendenza e la rivendica come parte integrante del suo territorio. Dall’altro Taiwan, formatasi dall’esodo dei nazionalisti cinesi del Kuomintang, sviluppatasi autonomamente dalla propria madre patria, che si presenta come una delle democrazie più tecnologicamente avanzate del mondo. Il fallimento della politica “un Paese, due sistemi”, evidente nella recente esperienza di Hong Kong, ha reso ancora più scettici i taiwanesi nei confronti di una possibile riunificazione con la loro ex-madre patria. La piccola isola del pacifico rivendica con fierezza la propria sovranità e indipendenza dalla Cina, ed è disposta a difenderla dalle grinfie di Pechino, sicuri dell’appoggio americano. Gli Usa, infatti, pur non riconoscendo l’indipendenza dell’isola dalla Cina continentale continuano a proteggere e a sostenere economicamente e militarmente l’isola di Formosa come baluardo anticinese. Il Taiwan Relations Act, votato anche dall’allora giovane senatore Biden, nel 1979, stabilisce relazioni non ufficiali tra gli Usa e Taiwan. La cooperazione fra i due paesi si avvale quindi di questa “ambiguità strategica”, con la quale Washington blandisce le rimostranze cinesi, attraverso il formale riconoscimento della politica dell’Unica Cina, ma continua a difendere le aspettative di sovranità di Taipei, garantendone la difesa. La passata presidenza trumpiana ha scosso questo delicato equilibrio, sbilanciando la politica sino-americana a favore di Taiwan. La massiccia vendita delle armi all’isola del pacifico, a scopo “difensivo”, e il colloquio telefonico tra il presidente Trump, allora neoeletto, e la presidente Tsai Ing-wen, sono un esempio di questo nuovo atteggiamento. L’ex segretario di stato Mike Pompeo, infine, negli ultimi giorni del suo mandato, ha eliminato i divieti alle relazioni tra funzionari americani e taiwanesi, lasciando l’onere delle conseguenze diplomatiche a Biden. Il nuovo presidente, tuttavia, ha considerato l’insidia diplomatica come un’occasione da cogliere per la sua amministrazione, al fine di intraprendere la strada verso rapporti più ufficiali con l’isola di Taipei. Il 14 aprile, con questi propositi, una delegazione americana, guidata dall’ex senatore Chris Dodd, ha incontrato la presidente Tsai Ing-wen a Taipei. La Cina ha visto con il fumo negli occhi tutto questo, considerando le ambigue dichiarazioni americane come vere e proprie provocazioni. Xi Jinping ha di fatto più volte ribadito come la riannessione della “provincia ribelle” sia tra le priorità del suo mandato, e che la «riunificazione non può essere rimandata di generazione in generazione». Non è un caso, dunque, che sempre più di rado l’aggettivo pacifico compaia nelle sue dichiarazioni e che la sua retorica diventi di volta in volta più minacciosa. Il portavoce del ministero degli esteri cinese ha dichiarato: «Gli Stati Uniti non devono giocare con il fuoco e devono smetterla di mandare messaggi sbagliati a Taiwan se non vogliono rovinare definitivamente le relazioni con la Cina».
Invasione: una possibilità
Di fronte allo stringersi dei rapporti con l’America, Pechino ha reagito con un’escalation di manifestazioni di forza. Gli esperti si dividono fra coloro che ritengono possibile un imminente attacco cinese e coloro che invece tendono a scongiurare la minaccia, relegando le incursioni a semplici provocazioni. Derek J. Mitchell, sinologo e presidente del National Democratic Institute (NDI) di Washington sostiene che l’invasione attuale di Taiwan sarebbe «un’operazione troppo rischiosa per la Cina, e la bilancia costi e benefici non pende dalla parte di un intervento militare a breve. Pechino ha tutto l’interesse a prolungare le sue politiche di disturbo e tensione nell’area senza intervenire». Anche secondo lui però il pericolo è solo rimandato verso un prossimo futuro: «Questo non significa che la Cina non si sia preparata per un possibile attacco. Xi Jinping ha dimostrato che non vuole continuare le politiche del passato e che è pronto a gesti anche spericolati». Secondo l’ammiraglio capo del comando indo-pacifico degli Stati Uniti (Indopacom), Philip Davidson «la Cina potrebbe tentare la soluzione militare entro i prossimi sei anni», mentre per il suo probabile successore, John Aquilino, la minaccia dell’invasione è «molto più vicina a noi di quanto si pensi». Di questo avviso sembra essere John Mills, ex direttore della politica di sicurezza informatica, strategia e affari internazionali dell’Ufficio del Segretario alla Difesa degli Stati Uniti. In un’intervista rilasciata all’Epoch Times, Mills ha affermato che a suo avviso le azioni della Cina culmineranno in una specie di “prova generale” da qui a due anni, considerando l’invasione cinese ormai imminente: «se non lo fanno entro dieci anni, penso che Xi Jinping probabilmente verrebbe rimosso dall’incarico. Penso che anche sei anni siano troppi».
Il ruolo cruciale di Taiwan
L’isola di Formosa ha contrastato la pandemia come nessun altro al mondo, uscendone con un’economia fiorente. La sede del più grande produttore di chip al mondo, la Taiwan Semiconductor Manufacturing Co (TSMC) è a Hsinchu a nord di Taipei, e rappresenta la punta di diamante dell’economia della piccola isola. Il settore industriale dei semiconduttori, necessari per tutti i dispositivi tecnologici moderni dagli smartphone ai missili, vale oggi, secondo le stime fornite da Bloomberg, più di 500 miliardi di dollari. Il terreno dei chip e dei semiconduttori è quindi un’area strategica di primo piano nel confronto fra Cina e Usa, tanto che questi ultimi ne hanno più volte ostacolato l’afflusso alla Cina.
«Perdere Taiwan significa perdere il Pacifico», così profetizzava il generale americano Douglas MacArthur. Che avesse ragione o meno, di certo la Cina rivuole la sua isola indietro, e il ruolo strategico che Taiwan ricopre nel Pacifico contribuisce solo a renderla un boccone più appetibile per le voraci fauci di Pechino.
Daniele De Camillis