Lo scorso 30 agosto si è spento, al Central Clinical Hospital della Russia, Michail Sergeevič Gorbačëv ultimo leader dell’ex Urss. Figura generalmente apprezzata in Occidente, di meno in madrepatria, l’ultimo segretario generale del partito comunista dell’Unione Sovietica è stato di certo uno tra i personaggi politici più rappresentativi della fine del secolo scorso. Propugnatore dei processi di riforma economica e sociale, riconosciuti con il nome di perestrojka, contribuì in modo significativo alla fine del regime di polizia in vigore nell’Europa dell’Est, alla distensione dei rapporti con l’Occidente ed infine allo stesso crollo dell’Unione Sovietica, nel 1991, per il quale molti – in Europa e negli Usa – né attribuiscono il merito, ed alcuni – in Russia – né imputano la colpa.
La storia di Gorbačëv, la fine di un secolo
«Dopo una serie infinita di personaggi ingessati, ecco arrivare al vertice dell’Urss un uomo garbato ed elegante, capace di muoversi con tatto nella gabbia del potere sovietico» con queste parole l’autorevole ex ambasciatore italiano a Mosca, Sergio Romano, rammenta l’ex leader sovietico. Salito al potere nel 1985, la lunga carriera politica di Gorbačëv ha avuto inizio circa 15 anni prima, quando, venne eletto come Primo segretario del comitato di partito per il territorio di Stavropol. «Noi del corpo diplomatico capimmo subito che Gorbačëv rappresentava una novità assoluta per l’Urss, che si stava per aprire una stagione senza precedenti». Un’osservazione, quella dell’ex ambasciatore, che aveva ben ragione di esistere.
Dal rinnovamento delle alte cariche politiche, la forte volontà di Gorbačëv, di ristrutturare le ataviche strutture sovietiche si concentrò sul versante economico. La famosa perestroika, che porta la sua firma, causò una radicale riformulazione del modello di sviluppo economico. Nel 1988 la Legge delle Cooperative reintegrò, non senza difficoltà e conseguenze, dalla prima volta dopo la Nep (1921-28), la proprietà privata nelle imprese legate ai servizi e all’industria manufatturiera, coinvolgendo anche numerosi settori del commercio esterno. L’obiettivo di Gorbačëv era quello di salvare l’impero dalla profonda stagnazione economica, politica e sociale, in cui si era ritrovato impantanato a causa delle rigidità dell’ala conservatrice del PCUS. Per fare ciò, accanto alle ardite manovre economico-politiche, affiancò quelle sociali, indicate con il nome di Glasnost’. Il termine stava ad indicare una nuova attitudine alla “trasparenza” e alla libertà di parola che dovevano progressivamente sostituire la propaganda e la retorica sovietica, sperando di trovare nella popolazione, così liberata dal gioco della censura e del controllo poliziesco, un sostegno alle sue politiche di riforma.
Alcuni fra gli eventi più significativi dell’ultima parte del secolo scorso si sono verificati sotto, o a causa, della sua direzione politica, dalla tragedia di Chernobyl (1986) – dove lo stato di polizia e la censura di nuovo intervennero nel tentativo di salvare l’immagine della nazione – al ritiro delle truppe sovietiche dall’ Afghanistan (1988) e al crollo del muro di Berlino (1989). Fondamentale, fu il suo contributo per la distensione dei rapporti con gli Usa e il blocco atlantico, contribuendo, in modo significativo, al miglioramento delle sorti della guerra fredda. Obiettivi ottenuti grazie al fermo della corsa alle armi, alla riduzione concordata dell’armamento nucleare, alla citata liberazione dell’Afghanistan e alla fine della dottrina Brežnev, che permise alle nazioni del blocco orientale, una maggiore indipendenza ed un ritorno alla democrazia. Per questi motivi, ottenne, nel 1990 il premio Nobel per la Pace.
Tuttavia, è innegabile che il tentativo di ristrutturazione operato da Gorbačëv sull’ Unione Sovietica contribuì non poco alla sua progressiva destrutturazione. Le difficoltà economiche percepite da buona parte della popolazione e la gestione non sempre chiara delle rivendicazioni nazionaliste delle repubbliche caucasiche, dipinsero un’immagine non sempre rosea del presidente all’occhio della popolazione russa. Nel 1991, infine, dopo un fallito colpo di stato portato avanti dagli avversari di Gorbačëv, venne siglato l’Accordo di Belaveža, conosciuto anche come accordo di Minsk, che sancì definitivamente la fine dell’Unione Sovietica. Poche settimane prima, Gorbaciov, aveva rassegnato le sue dimissioni come capo di stato
Un’eredità compromessa
Se per l’occidente il crollo del blocco orientale e la fine della guerra fredda hanno portato con sé un sentimento di istintivo rispetto verso l’uomo che ne fu il principale artefice, per i russi la fine dell’impero – il più grande della sua storia – e le dure ripercussioni economiche da questo conseguite, hanno pesato non poco sull’immagine e l’eredità lasciata dallo statista. Il rapporto controverso dell’attuale establishment politico, d’altronde, cavalca proprio questo genere di sentimento. L’ambiguità del modo di rapportarsi dell’establishment russo con il suo passato, riflette il tentativo di un regime che, pur rinnegando l’epoca sovietica, cerca di presentarsi all’interno quanto all’esterno come prosecutore della sua gloria ed erede della sua grandezza. Nulla di più chiaro per descrivere tale atteggiamento delle parole dello stesso Putin che, intervistato anni fa poco dopo l’ascesa alla presidenza disse: «Se non rimpiangi il collasso dell’Unione Sovietica non hai cuore, se vuoi che l’Urss rinasca non hai cervello». Un’ambiguità, questa che prosegue nell’atteggiamento del Cremlino con l’uomo che ha contribuito sì a disfare l’Impero, ma anche a fare la pace con l’Occidente. «Il romanticismo di Gorbačëv non si è concretizzato», ha affermato, con una certa durezza, Dmitry Peskov, portavoce di Putin, constatando l’impossibilità di «una pace durevole con gli ex nemici» – chiaro riferimento all’attuale situazione ucraina – «alla fine -ha aggiunto – la loro sete di sangue si è manifestata». Secondo Vladimir Poljakov, portavoce di Gorbačëv e segretario stampa della sua Fondazione per gli studi socioeconomici e politici, i rapporti con il Cremlino erano ormai divenuti «del tutto inesistenti». «È evidente – ha detto Poljakov, incalzato dalle domande dei giornalisti – che per l’uomo che ha dedicato tutta la sua vita politica a promuovere la pace, il disarmo, la sicurezza nucleare, tutte queste notizie – riferendosi alle offensive in Ucraina e al rischio di catastrofe a Zaporizhzhia – fossero difficili da digerire». Ecco spiegata anche l’assenza di Putin al funerale, non di stato, che avrà luogo nella sala delle colonne, uno dei posti più simbolici della Russia. Dopo un pacato telegramma e una visita al feretro, il presidente russo ha deciso di non presenziare alla cerimonia ufficiale, causa impegni pregressi. Che sia per la sua difficile immagine pubblica o per aver definito «un’assurdità» il conflitto tra Russia e Ucraina, il Cremlino ha deciso comunque di prendere le distanze da una figura che «molto complessa, sfaccettata e spesso contraddittoria ancora oggi provoca accesi dibattiti nella nostra società», secondo la descrizione dello stesso Peskov.
Daniele De Camillis