È da poco che abbiamo fatto l’occhio ai vari cannabis shop sparsi per le città, un fatto insolito per il paesaggio urbano italiano, dai richiami libertini propri di città da sempre considerate tolleranti e cannabis friendly (Amsterdam è solo una di quelle).
Ebbene, questi peculiari negozi sono stati da poco al centro del dibattito politico su cui è intervenuta anche la sentenza 30 maggio 2019 delle Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione che avrebbe messo al bando la commercializzazione di prodotti derivati dalla canapa ovvero la c.d. cannabis light.
I cannabis shop devono quindi chiudere? Presto per dirlo. In attesa del deposito delle motivazioni, cerchiamo di fare un po’ di chiarezza.
La premessa d’obbligo è che il Testo Unico sugli Stupefacenti non è mai stato modificato e la canapa rientra tra le sostanze di cui, di regola, è vietata e punita la coltivazione, la vendita, la commercializzazione, la produzione.
Solo nel 2016, la legge 242 ha previsto una deroga per cui è divenuta eccezionalmente legale la sola coltivazione a scopi industriali e commerciali della cannabis sativa L, con principio attivo THC inferiore a 0,6%.
L’obiettivo era quello di incentivare, su impulso del legislatore dell’UE, l’impiego della canapa, classificata quale coltura agricola, nella cosmesi, nell’industria manifatturiera, nella produzione di vestiti e nell’industria alimentare.
Così, si è ritenuto che fosse consentita anche la commercializzazione al dettaglio della cannabis light sotto forma di fumo, infiorescenze e prodotti derivati della cannabis sativa L, purché con THC inferiore a 0,6% (bustine, caramelle, bevande, infusi, biscotti e altri alimenti compreso il fumo ecc.).
Che tale condotta fosse legittima era anche confermato da numerose sentenze della Cassazione: se l’intento della legge era quello di incentivare l’impiego a scopo industriale e produttivo della sostanza, necessariamente doveva essere considerato lecito mettere in vendita prodotti derivati dalla cannabis sativa L, comprese le infiorescenze e gli alimenti.
D’altra parte, l’indicazione del limite massimo di THC possibile nella misura dello 0,6% si riteneva ragionevole nel bilanciamento tra il diritto alla libera iniziativa economica e gli interessi pubblici, tra cui anche la salute, sottesi alla repressione della diffusione di sostanze stupefacenti.
Isolate altre sentenze della Cassazione, invece, erano di diverso avviso poiché la legge 242 del 2016 non prevede espressamente la possibilità di commercializzare al dettaglio hashish o marjuana, anche se con THC inferiore a 0,6%, sicché la vendita di cannabis light non è ammessa.
Le Sezioni Unite, il 30 maggio 2019, hanno chiuso il dibattito e hanno stabilito che la vendita di cannabis light, intesa come prodotto derivato dalla cannabis sativa L sotto forma di infiorescenze, costituisce ancora reato ed è punibile poiché la legge 242 ha ammesso esclusivamente la coltivazione e l’impiego industriale e non anche la commercializzazione al dettaglio.
In attesa delle motivazioni, si può prevedere che la Cassazione sia partita dal presupposto che il Testo Unico sugli Stupefacenti non è mai stato modificato e, dunque, ogni eccezione deve essere interpretata in maniera restrittiva e rigorosa, pertanto la commercializzazione della cannabis light, non essendo stata espressamente prevista e regolamentata dalla legge 242, rappresenta ancora una fattispecie di reato.
Resta da capire se, nelle motivazioni, le Sezioni Unite lasceranno qualche apertura alla possibilità di commercializzare alcuni tipi di prodotti vietando solo la vendita al dettaglio della marjuana e hashish sotto forma di fumo.
Se così non sarà, i cannabis shop avranno effettivamente vita breve.
Avv. Paolo Pollini
Cell. 349.8291858