E’ stato un grande Maestro del cinema mondiale, uno dei padri fondatori – insieme a Godard, Truffaut, Rohmer, Chabrol – della Nouvelle Vague, la “nuova onda” francese che, a partire dalla fine degli anni Cinquanta, rinnova per stile e contenuti modi e forme della regia, attribuendo all’autore dell’opera filmica un predominio assoluto (la cosiddetta “politique des auteurs”), nella memoria del Neorealismo.
Jacques Rivette è scomparso a ottantasette anni, a Parigi, alla fine di un’esistenza dedicata alla critica e alla sperimentazione cinematografica, che lo ha reso l’esponente di maggior peso intellettuale del movimento, ma anche quello di più difficile comprensione agli occhi del grande pubblico.
Giovanissimo, a soli diciassette anni organizza un cineclub a Rouen, dove è nato; a Parigi dal 1949, incontra i futuri amici e cineasti Truffaut, Godard e Rohmer, iniziando a scrivere insieme a questi ultimi sulla “Gazette du Cinéma”. Dal 1953 diviene redattore dei “Cahiers du cinéma”, rivista che si qualifica come espressione di una nuova concezione della critica cinematografica, fulcro dell’esperienza artistica della Nouvelle Vague.
Dopo aver lavorato anche come montatore e attore (in Le beau Serge di Chabrol), passa alla regia nel 1956, con Le coup du berger, cortometraggio girato nell’appartamento dello stesso Chabrol, ma è con uno fra i suoi primi capolavori, Parigi ci appartiene (Paris nous appartient, 1961), inquieto dramma ambientato in una Parigi labirintica e misteriosa, che il suo cinema si qualifica come perenne movimento e ricerca, rigoroso sguardo in divenire sull’uomo e sulla società.
Autore non particolarmente prolifico, pare voler centellinare il lavoro cinematografico in opere che rappresentano una meditazione incessante sulle possibilità e le ambiguità del reale, come su quelle della macchina da presa; da questa prospettiva il tempo della visione si va enormemente dilatando, coincidendo con il tempo della vita. L’Amour fou, del 1967, è un esempio di “cinéma-vérité” avente per tema la crisi di una coppia: il film ha difficoltà di distribuzione a causa della lunga durata, quattro ore e mezzo; parimenti Out 1, del 1971, ispirato alla Storia dei tredici di Honoré de Balzac, raggiunge la durata di dodici ore, poi ridotte a quattro.
Lo slittamento della realtà nel sogno, il travaso dell’identità sono evidenti in Céline e Julie vanno in barca (Celine et Julie vont en bateau, 1974), mentre la città di Parigi rimane anche nel corso degli anni Ottanta lo sfondo prediletto per le narrazioni rivettiane, da Le Pont du Nord a Paris s’en va, entrambi del 1981.
Un altro originale esperimento di rappresentazione viene compiuto da Rivette nel 1994, quando racconta la vicenda di Giovanna d’Arco suddividendo il film, della durata complessiva di cinquecentotrenta minuti, in due parti molto apprezzate da pubblico e critica.
L’ultima prova di Rivette, Questione di punti di vista, del 2009, delicata riflessione su verità e rappresentazione con Jane Birkin e Sergio Castellitto, ambientata in un circo, va in concorso alla Mostra del cinema di Venezia, illuminante esempio della vitalità e curiosità che ancora pervadono l’ottantunenne Maestro.
Di lui Truffaut diceva, già negli anni Sessanta: «pur avendo girato poco, offre oggi l’unità di misura dei nostri tentativi».
Sperimentatore nato, curiosamente Rivette non amava il mezzo televisivo, che a suo parere trasforma la visione di un film in «una sorta di vuota luce riflessa».
Come tutti i grandi autori il regista di Rouen ha incarnato l’essenza stessa del cinema, la sua realtà, la sua arcana illusorietà, contribuendo a fondare il nostro immaginario: alla fine, Rivette ci appartiene.
Barbara Rossi