La nomination ufficiale a “Testimone del Tempo” gli era stata notificata da Carlo Sburlati il 6 maggio scorso. Giorgio Albertazzi, definito da “Repubblica” “l’ultimo imperatore del teatro”, è deceduto lo scorso 28 maggio, a 92 anni di età. Non sarà quindi presente sabato 15 ottobre al Teatro Ariston di Acqui Terme per l’attesa cerimonia di premiazione della 49^ edizione del Premio Acqui Storia, che questo anno ha battuto in tutte e tre le sezioni librarie tutti i record di partecipazione. Si spera che, in sua vece, a rappresentarlo e a ricordarlo, venga la moglie Pia de’ Tolomei. “Scompare con lui uno dei massimi interpreti del teatro e del cinema italiano contemporaneo” – ha ricordato il presidente Mattarella – “le sue interpretazioni dei grandi classici restano una pietra miliare nella storia dello spettacolo. Albertazzi, che ha dedicato al teatro l’intera esistenza, è stato punto di riferimento e maestro per generazioni di attori e registi”.
In teatro aveva debuttato nel 1949 con Luchino Visconti, l’ultima sua apparizione ne Il mercante di Venezia. In mezzo ci sta un po’ di tutto: dai fotoromanzi agli sceneggiati televisivi, dal cinema al varietà, ma soprattutto una serie infinita di grandi classici del teatro. E donne, tante donne: da Anna Proclemer a Bianca Tocafondi, da Elisabetta Pozzi a Mariangela D’Abbraccio… Per lui le donne erano finestre aperte sulla vita, un dono del cielo, anche se personalmente si dichiarava non credente. Come Kafka. Avrebbe voluto morire sul palcoscenico, come Molière, perché il palcoscenico era davvero la sua vita. Tanto che riteneva, pirandellianamente, più vere e più vive le “forme”, vale a dire i grandi (e immortali) personaggi teatrali – come Amleto, come Edipo – dei comuni mortali. Anche misurandosi con il grande repertorio classico, non dimenticava l’autoironia e la leggerezza, “che aiuta a superare, a sopportare la pesantezza di vivere, tramuta la risata in un sorriso, la tristezza in malinconia”. Una leggerezza che dimostrò, anche recentemente, partecipando persino a uno show come Ballando con le stelle. Ed anche nella morte. “Dovunque stiamo andando – diceva – cerchiamo di andarci con leggerezza”.
Aveva vent’anni quando aderì alla Repubblica Sociale Italiana e mai rinnegò quella scelta, che peraltro, finita la guerra, gli costò con due anni di detenzione carceraria. Si schierò, in tempi non sospetti, a favore dei diritti umani e rimase sostanzialmente un anarchico, innamorato della Bellezza, che era davvero l’unica dea in cui credesse. Ne divenne a suo modo un aedo e un interprete fedele e appassionato. Quando recitava d’Annunzio – il “suo” d’Annunzio, fosse quello della Figlia di Iorio o quello delle Laudi – s’inteneriva: pareva che la parola dell’Immaginifico gli sgorgasse dai precordi, pregna di quella “sensualità rapita fuor de’ sensi”, che era poi la corda più originale, lo stigma del grande pescarese. Dotato di una sprezzatura aristocratica che gli inibiva i ruoli comici, eccelleva nelle parti drammatiche, spaziando da Shakespeare a Sartre, da Ibsen a Dostoevskij, da Borges alla Yourcenar. La sua voce, “fluente come l’acqua e dorata come il miele” (Giuseppe Conte), ammaliava il pubblico; la sua memoria aveva del prodigioso.
Ne L’anno scorso a Marienbad di Alain Resnais, che nel 1961 vinse il Leone d’oro a Venezia, si calò con grande empatia nel ruolo dello “straniero”, riuscendo a rendere per così dire palpabile e accessibile anche al grande pubblico l’idea dell’incomunicabilità. Pure dell’Amleto diede una interpretazione esistenzialista, in maglione nero, facendo del personaggio shakespeariano una sorta di moderno anti-eroe, quasi fosse uscito dalla penna di un autore del nostro tempo. Era infatti convinto che la poesia fosse senza età, eterna come le idee platoniche e, in quanto tale, in grado di trasmettere a noi comuni mortali una sensazione d’immortalità. Come cantava Keats nell’ Endimione:“Una cosa bella è una gioia per sempre: / si accresce il suo fascino e mai nel nulla / si perderà; sempre per noi sarà / rifugio quieto e sonno pieno di sogni / dolci, e tranquillo respiro e salvezza”. Non per nulla anche Giorgio Albertazzi credeva fermamente – con l’amato Shakespeare – che anche “noi siamo fatti della medesima sostanza di cui son fatti i sogni”.