A metà luglio le proposte cinematografiche – dall’avventura al thriller alla commedia sentimentale – sono leggere e disimpegnate quanto basta per far scorrere le nostre calde serate estive, in attesa delle nuove e più prestigiose uscite d’autunno.
The Legend of Tarzan di David Yates si pone sulla scia delle tante pellicole che, con alterni risultati, hanno provato a raccontare origine e leggenda di Lord Greystoke, il “signore delle scimmie”, dal romanzo e clamoroso successo editoriale del 1914 di Edward Rice Burroughs: qui, però, Tarzan-John Clayton III (Alexander Skarsgard) cammina all’indietro, dalla vita compassata e civilizzata che conduce a Londra insieme alla moglie Jane (Margot Robbie) al ritorno alla giungla, alla primordialità, all’istinto, chiamato dal governo inglese a fare luce sui comportamenti imperialistici e scorretti del Belgio.
Memore dei suoi illustri predecessori, da Johnny Weissmuller a Miles O’Keeffe a Christopher Lambert, Skarsgard dà vita a un Tarzan un po’ cupo ma sensuale, muscolare e dinamico, calato in una storia di passioni primarie, di eterne lotte tra il bene e il male (cui fa riferimento il ruolo di Christoph Waltz, il malvagio Léon Rom).
La regia è vivace ma discontinua nel riproporre l’archetipo dell’uomo selvaggio/civilizzato e l’opposizione Natura-Cultura, in una ricerca fin troppo evidente dell’effetto visivo e spettacolare, a tutto svantaggio della narrazione.
Cell di Todd Williams è la trasposizione dell’omonimo romanzo del sempiterno Stephen King, pubblicato nel 2006: da allora il progetto di trasposizione cinematografica ha subito innumerevoli intoppi, ritardi e battute d’arresto, passando dall’idea primigenia di una produzione Dimension Films, con regia del veterano di film horror Eli Roth (autore di Hostel e Cabin Fever), a quella attuale della Notorious Pictures.
Le lunghe peripezie nella lavorazione hanno nuociuto senz’ombra di dubbio al film, che – trama a parte e con finale variato rispetto al libro – perde la divorante inquietudine, l’angoscia sotterranea ma potente che pervadono l’opera di King, e si esteriorizzano nei dialoghi serrati tra i personaggi; viene totalmente a mancare anche la feroce critica sociale sottesa a una storia che prende l’avvio dal manifestarsi di un misterioso segnale, diffuso dai cellulari, in grado di far impazzire all’istante la popolazione mondiale, trasformandola in una massa di zombi folli e sanguinari.
Se King omaggia esplicitamente, nel libro, George A. Romero – che ha modificato la figura del non-morto nell’immaginario collettivo a partire da quel piccolo gioiello di produzione indipendente che è stato La notte dei morti viventi (Night of the Living Dead, 1968) – e Richard Matheson, autore nel 1954 di un altro caposaldo della narrativa di fantascienza, Io sono leggenda, il film di Williams è invece soltanto un esteriore e superficiale tentativo di sfruttamento dell’assunto romanzesco originario a fini bassamente commerciali.
John Cusack-Clay Riddel e Samuel L. Jackson-Tom McCourt, insieme alla giovane Isabelle Fuhrman-Alice, fanno del loro meglio per incarnare secondo i criteri della verosimiglianza il terzetto di “sopravvissuti” parto della fantasia di King, determinato a sopravvivere in un mondo in cui l’uomo si ritrova improvvisamente a non rappresentare più la specie dominante.
Eppure la sceneggiatura rimane debole, gli effetti speciali convenzionali, la trama malamente assemblata: nella spinosa problematica degli adattamenti cinematografici da romanzi, qui a primeggiare è fuor di dubbio il testo originario di Stephen King.
Rebecca Miller, figlia d’arte – del commediografo Arthur e della fotografa Inge Morath – oltre che moglie del noto attore inglese Daniel Day-Lewis, con Il piano di Maggie – A cosa servono gli uomini cerca di restituire nuovi fasti alla vecchia screwball comedy degli anni Trenta (traduzione letterale: commedia svitata, un termine mutuato dal gioco del baseball), aggiornandola in chiave moderna.
L’assunto di base è sempre quello della vecchia commedia sentimentale: un continuo gioco a rimpiattino, un intreccio di equivoci e di situazioni paradossali nel racconto della tenace e a tratti feroce guerra fra i sessi che nella maggior parte dei casi approda, però, all’happy end.
Ne Il piano di Maggie c’è un’atmosfera newyorchese e alleniana in più, una sottile spolverata di sophisticated comedy che serve a dare maggiore raffinatezza al piatto.
Greta Gerwig (già eccellente protagonista nel 2012 di Frances Ha di Noah Baumbach, suo marito nella vita) riveste con maestria i panni di Maggie, una giovane insegnante d’arte molto determinata nel raggiungimento dei propri obiettivi: prima avere un figlio con l’aiuto dell’inseminazione artificiale, non avendo una relazione stabile: poi, dopo che il suo istinto programmatore è stato parzialmente messo a tacere dall’irrompere in scena del sentimento amoroso, favorire il ricostituirsi di un rapporto di coppia tra il proprio compagno e l’ex moglie, fra i quali sembra scoppiettare ancora qualche scintilla.
Il destino, però, non è del tutto preventivabile, e rimescolerà, scompigliandoli, le carte e i piani di Maggie.
Il film, appartenente alla lontana al neogenere mumblecore (film a basso costo, girati in digitale, che mettono in scena una generazione di trentenni confusi, insicuri, che si interrogano e dialogano in continuazione su scelte di vita e futuri possibili), può vantare un cast di ottimi attori, da Julianne Moore a Ethan Hawke, e uno stile originale, una mano particolarmente felice nei ritratti d’ambiente e sociali come nella caratterizzazione dei personaggi.
Il piano di Maggie è una commedia ironica, colta e molto brillante sulle contemporanee, complesse geografie del cuore: diverte e fa riflettere, un binomio da sempre vincente.
Barbara Rossi