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Per questo fine settimana iniziamo col proporre, ancora una volta, un horror, ricordando che l’estate è la stagione migliore per questo genere, e che – tra le tante proposte mediocri – è anche possibile trovare delle opere intelligenti.
E’ il caso di IT Follows di David Robert Mitchell, al suo secondo lungometraggio, la cui protagonista, Jay, si ritrova bruscamente catapultata nel bel mezzo di un potente incubo ad occhi aperti, vittima del fidanzato Hugh, che le “trasmette” una sorta di possessione diabolica da parte di una non meglio precisata entità ultraterrena, proteiforme e senza volto ma terribilmente minacciosa.
Specchio e spauracchio delle fobie (il contagio avviene per trasmissione sessuale), della profonda solitudine e della crisi d’identità e valori che percorre la società americana contemporanea (vedi la desolazione dei sobborghi urbani, Detroit e dintorni, che fanno da sfondo alla storia), già così ben rappresentate dall’apocalisse zombi romeriana tra la fine degli anni Sessanta e il decennio dei Settanta, IT Follows è un film diretto con stile originale e mano sicura, che ricorda da vicino La cosa di John Carpenter (1982), a sua volta liberamente ispirato al classico di fantascienza La cosa da un altro mondo, girato nel 1951 da Christian Nyby e prodotto da Howard Wawks.

Mister Cocholat del regista marocchino Roschdy Zem, campione d’incassi in Francia, mette in scena la vera storia di Rafael Padilla (Omar Sy), detto “Chocolat”, il primo clown di colore della storia francese.
Ambientato nella Francia del 1897, impermeabile alle diversità culturali e razziali e poco incline a prendere in considerazione qualsiasi alterità di sguardo e di pensiero, il film riporta all’attenzione del grande pubblico una vicenda pressoché dimenticata, quella esistenziale di un uomo, figlio di schiavi cubani, assunto ai ranghi di stella del circo parigino poco prima dello scoppio della prima guerra mondiale, morto ingloriosamente e in solitudine dopo vent’anni di successi ma anche di isolamento e conflitto con una società intollerante.
A parte alcune banalità narrative e qualche tipizzazione nel disegno dei personaggi, Mister Cocholat si può vedere per la riflessione che si ricava da ciò che racconta, oltre che per la splendida interpretazione di James Thierrée, mimo e acrobata circense, nipote di Charlie Chaplin, nelle vesti di George Footit, il clown amico e collega di Chocolat.

La casa delle estati lontane, opera prima della regista franco-israeliana Shirel Amitaï, ci immerge nella quiete della campagna di Atlit, poco fuori Tel Aviv, pochi mesi prima di quel 4 novembre 1995 che, con l’uccisione di Yitzhak Rabin, mutò per sempre la prospettiva di pace in Israele.
Cali (Géraldine Nakache) torna nella casa della propria infanzia, che dev’essere venduta dopo la morte dei genitori, Mona (Arsinée Khanjian) e Zack (Pippo Delbono, bravissimo attore e regista teatrale).
Ad attendere Cali ci sono Darel (Yael Abecassis), la sorella maggiore, e Asia (Judith Chemla), la più piccola, la sognatrice, che vorrebbe partire per l’India alla ricerca di se stessa.
Intorno e in mezzo a queste tre giovani donne, nell’inevitabile rendez-vous cui la scomparsa di Mona e Zack costringe loro (il titolo originale, Rendez-vous à Atlit, è un riferimento non peregrino), corre veloce la Storia con le sue speranze e lacerazioni, con un dramma non annunciato che rimetterà tutto in discussione, il futuro del Paese come la vita dei singoli.
Tra gli ambienti e le intimità domestiche, le confidenze, la pace del coltivare i fiori, del sostare tra gli ulivi e dell’osservare le care presenze di un tempo rimaste lì, ad aggirarsi protettive per le stanze dei ricordi, Cali, Darel e Asia si confrontano, rafforzano il loro legame, si interrogano su ciò che verrà. In una parola: crescono, figlie del loro tempo e coraggiose tessitrici di una trama personale e collettiva.
La casa delle estati lontane soffre della discontinuità stilistica e narrativa di molti esordi: ma le tre protagoniste sono superlative, il riferimento storico incisivo e convincente, il messaggio veicolato dalla storia chiaro.
“All’origine non c’è altro che un desiderio di pace”, racconta Shirel Amitaï. “A partire da quella personale e esistenziale: la pace del singolo che si dona poi agli altri, alla famiglia, alla comunità. Per farlo occorre accettare le proprie paure, i propri limiti, i propri fantasmi e quelli di un paese intero”.

Barbara Rossi

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