In questo fine settimana di metà giugno la programmazione nelle sale punta su di un film d’animazione, un legal thriller e il ritorno sugli schermi del regista americano Richard Linklater, dopo il denso Boyhood.
Angry Birds – Il film, di Clay Kaytis, è la trasposizione cinematografica di un gioco virtuale per smartphone di grande successo, segno inequivocabile di tempi in cui il centro propulsivo delle narrazioni per immagini si è spostato dallo schermo del computer a quello del cellulare.
Il cinema, in questo caso, funge da semplice cassa di risonanza per la storia di Red, l’uccellino rosso perennemente accigliato e iroso, che vive e canta “fuori dal coro”, da indipendente ed emarginato, nella sua isola lontano dal mondo.
L’invasione degli aggressivi maiali verdi permetterà alla variopinta comunità dei pennuti di rivalutare la presenza e la figura di Red, riconoscendo che la rabbia non è sempre un’emozione negativa e che, in determinate circostanze, può anche salvare la vita.
In Conspiracy – La cospirazione, il regista Shintaro Shimosawa si cimenta con le atmosfere, la tensione e gli espedienti narrativi di un legal thriller che gli sceneggiatori, Adam Mason e Simon Boyes, modellano sui perfetti meccanismi a orologeria dei thriller di John Grisham, con minor accuratezza ma anche con artigianale perizia.
L’avvocato Ben Cahill (Josh Duhamel), venuto in possesso di scottanti documenti che proverebbero il coinvolgimento di Arthur Denning (Antony Hopkins), anziano e ricchissimo magnate di un colosso farmaceutico, nella sperimentazione omicida di alcuni medicinali, offre su di un piatto d’argento la scoperta al suo capo Charles Abrams (Al Pacino), rivale da tempo immemore dell’industriale.
La faccenda si complica, però, con il misterioso rapimento di Emily, ex di Ben, amante di Denning e fonte delle prove di colpevolezza di quest’ultimo.
Tra lo sguinzagliamento di investigatori privati sulle tracce di Emily, i colpi di scena tipici del genere e un sorprendente – forse troppo – finale, Conspiracy si snoda vertiginosamente, avvalendosi dell’esperienza di due vecchi leoni del grande schermo, Al Pacino ed Anthony Hopkins, al servizio di un plot un po’ macchinoso, con ambizioni eccessive che finiscono per trascinarlo in una pericolosa confusione di motivi e forme.
Rimane l’entertainment, l’intrattenimento a buon mercato.
Ad un altro livello, invece, Tutti vogliono qualcosa, con cui Linklater, già autore della trilogia Prima dell’alba, Before Sunset, Before Midnight, ritorna a confrontarsi con il tema della memoria, con l’affastellarsi dei ricordi e il loro racconto, a partire dal punto in cui il precedente Boyhood si arrestava.
Il pensiero corre, inevitabilmente, a La vita è un sogno, il film sugli anni adolescenziali che il regista realizzò nel lontano 1993, e a cui Tutti vogliono qualcosa fa eco.
Siamo nel 1980, l’inizio dell’era Reagan, ad Austin, nel Texas. Jake (Blake Jenner) – dietro la cui figura si nasconde lo stesso Linklater – inizia la sua carriera accademica al campus, tra le partite come lanciatore della squadra di baseball, allenamenti, feste, innamoramenti e prove di forza virili con i coinquilini.
Così scorrono i giorni e le ore, i minuti e i secondi di questo gruppo di giovani, non ancora adulti, già fuori dell’adolescenza, in un impasto magmatico, colorato e pop, di tempo e memoria.
Prima che il futuro arrivi, con le allettanti promesse ma anche con le angoscianti incertezze della maturità, Linklater ferma l’attimo, fissa le vite dei ragazzi, con benevolenza nostalgica, in un eterno presente, in una fotografia dinamica che diventa, ancora una volta nella sua cinematografia, riflessione sugli intrecci del destino e sulle oscillazioni del cuore.
Barbara Rossi