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In questo fine settimana di settembre che anticipa, con la proclamazione dei film vincitori della 73esima edizione della mostra d’arte cinematografica, l’uscita delle attese opere veneziane, ci imbattiamo subito sul grande schermo con il sequel-kolossal Independence Day-Rigenerazione di Roland Emmerich, in cui il regista tedesco ritorna al dispendio di effetti speciali – qui supportati dalla tecnologia digitale – alle magmatiche scene di massa e alla magniloquenza retorica made in Usa dell’originale (1996).
David Levinson (Jeff Goldblum), esperto di telecomunicazioni, scopre in maniera fortuita il minaccioso progetto per una seconda, massiccia e irreparabilmente distruttiva invasione aliena.
Coadiuvato da Thomas J. Whitmore (Bill Pullman), presidente degli Stati Uniti all’epoca della prima invasione, uomo dalla vena eroica non del tutto esaurita, Levinson risponderà colpo su colpo e in maniera rocambolesca ai tentativi di sopraffazione degli invasori, sino alla resa dei conti finale.
La storia rimane in superficie, infarcita di grossolanità e luoghi comuni, con l’unico, parziale riscatto di scenografia e scenografia in alcune sequenze.
Sarebbe forse stato preferibile per Emmerich fermarsi alla prima invasione aliena.

Un amore all’altezza di Laurence Tirard, (Le avventure galanti del giovane Molière, 2007) è una commedia nient’affatto scontata sulla difficoltà di un rapporto amoroso tra una avvocatessa giovane e di bella presenza e un architetto di successo, ma con l’handicap della bassa statura: appena un metro e trentasei centimetri.
L’imbarazzo che Diane (Virginie Efira) inizia a provare nei confronti di Alexandre (Jean Dujardin), pur amandolo, provoca nel loro rapporto una crisi di non facile soluzione.
Film sulla diversità e sull’attrazione-repulsione – ingiusta ma umana – che essa ispira, Un amore all’altezza è una commedia brillante ma anche un dramma dei sentimenti, ben scritto e adattato dall’argentino Corazón de León di Marcos Carnevale (2013), ma con qualche lacuna semantica di troppo, nella difficoltà del raccontare e del far rivivere un limite fisico che viene ancora troppo spesso avvertito come barriera quasi insuperabile nei rapporti tra le persone.

Kim Rossi Stuart realizza, con Tommaso, un tentativo di pamphlet psicologico-sentimentale sulla vita di un giovane uomo – evidentemente lo stesso Tommaso di Anche libero va bene, 2006 – che si trova a disagio nella propria pelle, con l’altro sesso, nel quotidiano esercizio di relazioni amorose di cui non riesce a sperimentare che l’aspetto carnale, rifuggendo o uscendo sconfitto da qualsiasi altra forma più profonda di coinvolgimento.
Tommaso, che ricorda molto da vicino il protagonista di Shame di Steve McQueeen (2011, presentato a Venezia, con un Fassbinder superlativo), è un nevrotico, una personalità irrisolta, frammentata, che gira a vuoto in una vita priva di scatti, di mordente, dentro storie d’amore tristemente opache.
La condizione dell’uomo contemporaneo? Forse, ma raccontata da Rossi Stuart con eccessivo cerebralismo, pur se con mano attenta, stile sicuro e limpido, maturità di forme e contenuti.

Barbara Rossi

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