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L’ultimo weekend di agosto ci riserva, finalmente, qualche novità cinematografica, ad anticipare l’abbondanza di proposte di una stagione autunnale ormai alle porte.
Si inizia con L’era glaciale: in rotta di collisione di Mike Thurmeier e Galen T. Chu, ennesima rivisitazione (la quinta), questa volta in chiave cosmica, dell’epopea preistorica d’animazione realizzata dai Blue Sky Studios per la 20th Century Fox.
I protagonisti sono quelli di sempre: il bradipo Sid, il mammuth Manfred e Diego, la tigre dai denti a sciabola, con famiglie e amici al seguito, tra i quali l’insostituibile e archetipico Scrat, lo scoiattolo eternamente intento ad inseguire la sua ghianda. La minaccia proviene dallo spazio e si condensa sotto forma di un enorme asteroide, capace di provocare la rapida estinzione di tutte le forme viventi. Il gruppetto di intrepidi animali dovrà lottare contro il tempo e l’asteroide, per garantire la salvezza comune.
L’era glaciale: in rotta di collisione è un buon sequel, un prodotto seriale attentamente confezionato, impeccabile dal punto di vista estetico e molto divertente per gli spettatori. Tuttavia la storia e il suo discorso cominciano, inevitabilmente, a soffrire di una certa ripetitività, nello sforzo di recuperare spunti narrativi originali. La figura più autentica nel gruppo degli animali antropomorfi è forse proprio quella di Scrat, nel potente valore simbolico del suo infinito rincorrere un oggetto topico che continuamente gli sfugge: anche nell’orizzonte superno di stelle e galassie.

Paradise Beach: dentro l’incubo – dello spagnolo Jaume-Collet Serra, che ha ottenuto nel 2009 un buon successo di pubblico e critica con l’horror Orphan – si cimenta egregiamente con le atmosfere d’alta tensione di un’opera che si pone sulla medesima strada, ultima solo in ordine di tempo, delle pellicole incentrate sulle quotidiani minacce provocate da una Natura leopardiana, indifferente e, a tratti, ostile.
Qui il pericolo, declinato quasi da subito in chiave horror, è rappresentato da uno squalo (un vero e proprio archetipo cinematografico, da Lo squalo spielberghiano in poi), impegnato ad attentare alla vita di Nancy (un’ottima Blake Lively), in preda di solitudine e onde sulla sua tavola da surf, in acque messicane sconosciute.
Il plot è efficacemente congegnato, denso di trovate narrative ed espedienti visivi di sicura presa per il pubblico, capace di giocare con il senso di mistero e di angosciante attesa emanato da un ambiente naturale splendido e terrificante insieme.
Qualche banalità rimane, difficilmente evitabile da Open Water (2003) in poi, per comprensibili problemi di originalità drammaturgica: eppure la storia decolla, cattura e lascia, anche nel finale, con il fiato sospeso.

L’esordio alla regia dell’attore e regista italiano Andrea Di Stefano è una scommessa vinta.
A parte alcune scene un po’ retoriche, che ricordano quelle dei film su mafie, padrini e dintorni, Escobar è una pellicola dal ritmo serrato, asciutta, dura, intransigente nell’immediatezza e fisicità di storia e discorso.
Il grande Benicio Del Toro riveste con somma aderenza i panni diabolici di Pablo Escobar, re del narcotraffico, genio del male, killer feroce e spietato ma – nella resa filmica – anche amorevole marito e padre di famiglia, generoso capopopolo.
Il contrasto tra questi due aspetti contrastanti della personalità di Escobar, splendidamente evidenziato dall’interpretazione di Del Toro, è una delle chiavi di volta di quest’opera, insieme al rapporto conflittuale tra Escobar stesso e Nick (Josh Hutcherson), che approdato in Colombia inseguendo un sogno di ritorno al paradiso terreste, si ritrova a scrutare dentro l’inferno dopo essersi innamorato di Maria (Claudia Traisac), nipote del criminale.
Un film da non trascurare, a dispetto della pessima uscita in sordina di fine agosto.

Segnaliamo, infine, Il diritto di uccidere (molto più efficace, dato il tema, il titolo originale, Eye in the Sky), serrato thriller di produzione britannica a firma di Gavin Hood: presentato lo scorso anno al Toronto Film Festival, mette in scena il dilemma, militare e morale, di un intervento bellico – in territorio kenyano, allo scopo della cattura di una cittadina inglese convertitasi al fondamentalismo islamico – che potrebbe risultare letale per la popolazione locale.
Il premio Oscar Helen Mirren interpreta con puntigliosità e carisma lo scomodo ruolo del colonnello Power, a capo della ricognizione militare, mentre possiamo godere dell’ultima, impeccabile ed ironica performance di Alan Rickman, il generale Benson.
Il film pone all’attenzione del pubblico anche il tema dell’uso delle nuove tecnologie di guerra, i droni in particolare, del loro utilizzo, all’interno di un campo di battaglia mediatico sempre più complesso e ambiguo: ricorda il pluripremiato The Hurt Locker di Katherine Bigelow (2008), ma con minor raffinatezza e potenza visiva.

Barbara Rossi

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