Il primo weekend cinematografico di agosto si apre con Le sorelle perfette di Jason Moore, una commedia molto leggera e disimpegnata, perfetta per una visione vacanziera, ma con una punta di nostalgia e malinconia in stile “come eravamo” che la rende più accattivante.
Maura (Amy Poehler) e Katie (Tina Fey) Ellis sono due sorelle totalmente differenti tra loro per carattere e aspetto fisico: la prima, bruna, è un’infermiera assennata e responsabile, la seconda, bionda, è più estroversa e fuori dagli schemi.
La sceneggiatrice Paula Pell gioca con maestria, almeno all’inizio, sul contrasto tra modi di essere e di vivere di Maura e Katie, all’interno di un plot che le vede insieme alle prese con l’annuncio dell’imminente vendita della casa della loro infanzia, con la necessità di sgomberarla e – perché no – di sottrarla al cambio di proprietà e all’oblio.
Il party per ritrovare i vecchi amici organizzato dalle due a questo scopo vale, alla maniera di Woody Allen, come rimpatriata agrodolce, nostalgico amarcord del tempo che passa, condito di gag, battute scoppiettanti, tentativi – in alcuni passaggi forzati – di sorridere di fronte all’inesorabilità di certi passaggi di vita.
Lights out-Terrore nel buio fa parte della ricca anche se non sempre eccelsa proposta horror del mese di agosto.
Il regista svedese David F. Sandberg parte da un suo cortometraggio di successo del 2013 per costruire, purtroppo con esilità e debolezza strutturale, la storia – venata da ombre (letteralmente) espressioniste e rimandi alle ghost story orientali – della lotta terribile e terrificante di Paul (Billy Burke) e soprattutto della moglie Sophie (Maria Bello) con una misteriosa entità che si manifesta soltanto in assenza di luce.
Determinanti per la risoluzione dell’inquietante enigma si riveleranno i figli della coppia, Rebecca (Teresa Palmer) e Martin (Gabriel Bateman).
Il film si fonda, a livello visivo, su di una ricca messe di colpi di scena al buio e lights effects, eppure l’esito finale è poco convincente, e il tentativo di nobilitare la trama attraverso la messa in campo di riferimenti psicologici velleitario.
Con Equals di Drake Doremus si ritorna per l’ennesima volta al futuro distopico orwelliano di 1984, ma con minore fortuna e qualità stilistico-narrativa rispetto sia al romanzo che alla pellicola originari.
Nia (Kristen Stewart, che qui ricorda fortemente l’adolescente inquieta di Twilight) e Silas (Nicholas Hoult), gli “equals”, abitano una società futuribile governata dal Collettivo, che per evitare problemi di sicurezza e ordine pubblico ha modificato geneticamente gli individui, privandoli delle passioni e delle emozioni umane.
I due giovani colleghi di lavoro fanno le spese di uno scarto, sempre in agguato nella catena della mutazione genetica, innamorandosi e decidendo di dare vita a una vera e propria lotta e e fuga verso la libertà.
Stewart e Hoult si rivelano all’altezza dei loro ruoli, il film (da un racconto di Nathan Parker) è stato presentato in anteprima e candidato al Leone d’oro veneziano lo scorso anno, eppure la fredda glacialità, l’eleganza estetica dell’ambientazione, espressione dell’aridità emotiva che contraddistingue la società futura, non modificano, con la loro bellezza patinata, la prevedibilità di una storia ormai già troppe volte raccontata, sino a diventare un vero e proprio topos.
Doremus vira decisamente verso la fantascienza rosa, privilegiando il lato sentimentale della trama a scapito delle implicazioni simboliche e filosofiche dell’assunto.
Un’occasione perduta, nel mare magnum delle fiction che costringono ad interrogarci sulle ipotetiche derive del mondo a venire.
Barbara Rossi