Il 16 marzo 2016 alle ore 21 al Teatro Municipale di Casale Monferrato andrà in scena “CARMINA BURANA”regia e coreografia di Mauro Astolfi, musiche di Karl Orff, V. Caracciolo ( da “Passione Medioevale”), A. Vivaldi ( da “Dixit dominus”), disegno luci di Marco Policastro, scenografie di Stefano Mazzola, costumi di Sandro Ferrone- Roma, Halfon- Roma. Una produzione Spellbound Contemporary Ballet, realizzata con il contributo del Ministero per i Beni e le Attività Culturali Dipartimento dello Spettacolo e dell’Azienda Autonoma Soggiorno e Turismo di Maiori nell’ambito dei Grandi eventi della Regione Campania.
La coreografia di Carmina Burana, tutta giocata tra ‘larghi’ e ‘sfrenatezze’, è divisa essenzialmente in tre momenti che scandiscono un crescendo liberatorio: si passa da una brutale aggressione sotto il cupo rombare della pioggia battente a una parte irriverente e grottesca che allude alle giullarate, per culminare infine nell’incendium cupiditatum, lo scatenamento delle passioni, che avviene nella taberna, luogo di appagamento degli istinti primari…Due i simboli chiave di questo balletto, calati in un’atmosfera metafisica: un grande armadio (visto, si direbbe, con gli occhi dell’infanzia che tutto colorano di mistero) e una tavola. Il primo – in cui i corpi dei ballerini si vanno quasi a riporre come abiti frusti- è luogo di memorie, di segreti di ‘scheletri’ ipocritamente celati; la seconda, altare sacrificale della terrena voluptas, è imbandita di corpi esibiti come cibarie tentatrici.
I Carmina Burana vennero ritrovati, numerosissimi (più di trecento componimenti di vario genere), in un manoscritto dell’abbazia di Benediktbeuren, da cui presero il nome. Vengono fatti risalire per la maggior parte al secolo XIII, quando non era troppo difficile, viaggiando per la Germania e la Sassonia, imbattersi nei goliardi (da cui il nome dato dalla tradizione italiana agli studenti universitari, che in realtà hanno poco o nulla da spartire con i loro omonimi medievali) o più propriamente clerici vagantes, letterati girovaghi studiosi della tradizione poetica greca e latina, cantori del vino, delle donne, del vagabondaggio e del gioco. Poesia burlesca, impudente, sovversiva: si parla senza troppi veli del corpo e della sua quotidiana avventura, se ne esplicano con gioia le funzioni, non si guarda all’altrove. Tace il linguaggio della ratio, si dimentica il decorum e si osa persino irridere audacemente al divino con le cosiddette ‘kontrafakturen’, ossia travestimenti di inni e motivi religiosi in canti profani che suonano come parodia degli evangeli, delle formule di confessione e delle litanie. Eros, dunque, riassorbe thanatos, l’homo faber si trasforma in homo ludens.
“Venus me telo vulneravit / aureo, quod cor penetravit”… “Venere mi ha colpito con una freccia d’oro, che mi è penetrata nel cuore”: il corpo (a differenza di quello dei dannati nei ‘Giudizi universali’ della pittura medievale che non conosce alcuna floridezza nella resurrezione, soltanto degradazione, pustole e infermità), non è mai detto animale, basso, ‘sozzo’, bensì viene innalzato, liberato e goduto, come nei versi di Ovidio, Marziale e Catullo.
Da questo curioso magma di scurrilità plebea e raffinatezza cortigiana Mauro Astolfi trae – o per meglio dire, deduce in piena libertà, senza alcuna intenzione filologica – una coreografia tutta giocata tra ‘larghi’ e ‘sfrenatezze’ (del resto, è un artista a cui il ritmo ‘medio’ poco o nulla si addice) che agisce lo spazio quasi a volerlo contestare, divisa essenzialmente in tre momenti che scandiscono un crescendo liberatorio: si passa da una brutale aggressione sotto il cupo rombare della pioggia battente a una parte irriverente e grottesca che allude alle giullarate, per culminare infine nell’incendium cupiditatum, lo scatenamento delle passioni, che avviene nella taberna (qui anche – come spesso anticamente – bordello), luogo di appagamento degli istinti primari… Due i simboli chiave di questo balletto, calati in un’atmosfera inquietantemente metafisica: un grande armadio (visto, si direbbe, con gli occhi dell’infanzia che tutto colorano di mistero) e una tavola. Il primo (in cui i corpi dei ballerini si vanno quasi a riporre come abiti frusti), luogo di memorie, di segreti di ‘scheletri’ ipocritamente celati; la seconda, altare sacrificale della terrena voluptas, imbandita di corpi esibiti come cibarie tentatrici (Gola e Lussuria, essendo due vizi capitali, sono figli della medesima cova)…
‘Carmina burana’, dunque, come temerario ‘grido’ del dissenziente che si pone di fronte all’ ‘infrazione’ senza soverchia paura e al tabù con il palese desiderio di infrangerlo sfidando consapevolmente censure e anatemi, giocando a carte scoperte la quotidiana partita contro la morte, recuperando il caos di Pan attraverso l’armonia di Orfeo, accettando la realtà senza spiritualizzarla, magari sconfinando nella ‘trivialità’ e nell’ ‘osceno’… Non si aspettano futuri compensi, ma si vive nell’oggi, riconoscenti a divinità dal volto pagano che non minacciano castighi e non promettono compensi oltre ciò che può dare l’immediata contingenza: non dèi, ma più familiari demoni, da cui lasciarsi possedere e invasare, come Eros, il quale, a dire di Platone, “è un demone grande”, e come tutto ciò che è demoniaco è “qualcosa di mezzo tra il dio e il mortale”.