Ci capivamo al volo, io e Duccio. Perché Duccio? Perché era uno dei modi in cui lo chiamavo, diminutivo di Dedé. Che già a sua volta era un diminutivo: esattamente di Filadelfo, suo primo nome di battesimo. La prima volta che me lo disse risi, perché era un nome ‘strano’. Non se la prese, rise anche lui. Ma il diminutivo Dedé funzionava benissimo, soprattutto in radio, nella ‘sua’ Radio West, fondata con tre amici nel luglio 1982, dopo l’esperienza americana. Ma funzionava anche prima, a Radiocity e a Telecity, dove iniziò a lavorare, addirittura risiedendo in loco.
Era un grande appassionato di musica, Dedè, ne sapeva tantissimo e contagiava gli altri. Amava talmente la musica e il suo lavoro di direttore artistico che una volta scrisse nella chat di Radio West: “Ragazzi vi amo. Non vi spiego perché, ma vi amo sin dal primo giorno che ho conosciuto ognuno di voi. Sono stato un rompiballe ma perché voi siete tanta roba… nella mia vita, a parte pochissimi casi, non ho mai conosciuto gente che vi possa pulire le scarpe”. Bello avere un direttore così, si lavora bene, si è stimolati a migliorare.
Un giorno mi cercò per collaborare con Radio West. Gli piaceva la mia voce radiofonica. Mi diceva: “Tutto parte dalla voce, il resto si costruisce intorno”. Avevamo la stessa età, entrambi nati nel maggio 1956, divisi solo da 12 giorni.
Poi ci ritrovammo in TV, e fu ancora lui a cercarmi, vista le mie esperienze precedenti. Ci volevamo bene, ci stimavano, condividevamo tante cose, compreso il tifo per l’Inter.
Dedé era un innovatore, un perfezionista. Quando puntava su una cosa ci credeva fino in fondo. E riusciva. Sapeva molte cose, spesso derivanti dalla sua esperienza americana che, oltre al ‘fluent engllish’ condito di ‘slang’, gli aveva lasciato anni di vantaggio sulle realtà radiotelevisive italiane, soprattutto quelle di provincia. Ma realizzarle si poteva solo in parte, spesso adattandosi. Talvolta erano insormontabili gli ostacoli, fatti di diffidenza, sospetto, visione limitata o poca voglia di rischiare.
Ricordo ancora quella diretta TG su Primantenna, il 12 novembre 2003, quando ci ritrovammo tra le mani, per caso, l’attacco alla basa militare italiana di Nassiriya in Iraq. Un’emozione incredibile, gestita lui dalla regia e io in onda: andò benissimo, con grande soddisfazione per noi e per l’editore. Ne parlavamo spesso.
Dedé lo chiamavo anche in un altro modo: ‘Sly’. La traduzione è ‘furbo’, ma il riferimento non era alla sua astuzia, che comunque c’era, ma alla sua somiglianza con Sylvester Stallone, il cui soprannome è proprio ‘Sly’. Somiglianza da giovani, ovvio, in certe posture e con una certa luce. Ma c’erano foto o inquadrature che li avvicinavano tantissimo. E lui rideva, si divertiva. A volte gli dicevo “fammi la bocca storta come Rambo che urla sull’elicottero”, e lui imitava, divertendosi. A volte facevamo i seri, condividendo le nostre esperienze di vita: entrambi separati, con figli della stessa età, ce la raccontavamo, soffermandoci sulle doti e sulle esperienze dei rispettivi eredi, tutti bravi ragazzi e tutti riusciti nella vita.
Lui mi chiamava sempre allo stesso modo: Ray. Detto all’americana. Come ai tempi della radio, quella Radio West che portò l’America fra Bormida e Tanaro anche per merito suo. Ricordo le lunghe sedute di registrazione degli spot radiofonici che mi faceva ripetere all’infinito, finché il prodotto non era come voleva lui. In TV, invece, mi diceva: “In onda non ridere troppo”. E io: “Ma no, non rido. Trovo che un sorriso, salutando nel TG, possa avvicinare il pubblico”.
Ci capivamo al volo, io e Duccio. Ciao caro amico. Spiega la musica anche lì dove sei. Col solito garbo.