“Homo sum, umani nihil a me alienum puto”. L’avvocato James B. Donovan – portato sullo schermo con la consueta perizia e sicurezza d’attore da un Tom Hanks cui gli anni regalano alla sua figura di divo della porta accanto, incarnazione delle più salde virtù americane, sempre maggiore spessore e credibilità – avrebbe potuto benissimo far suo questo motto del poeta latino Terenzio.
Perché l’autentica storia, realmente accaduta all’epoca della Guerra Fredda, raccontata da Il ponte delle spie non è tanto quella rientrante nel genere spionistico alla John le Carré, quanto quella che registra la coraggiosa esperienza di un uomo che in un momento storico così simile al nostro, scandito da divisioni ideologiche, geografiche, sociali, scelse di considerare il presunto avversario prima di tutto un suo simile, non un nemico. Dunque, meritevole di rispetto e di stima, a prescindere dal suo ruolo all’interno della società.
Il regista Spielberg, non nuovo alle narrazioni che focalizzano l’attenzione su determinati segmenti della storia del secolo scorso – specie americana, da Salvate il soldato Ryan a Il colore viola, Amistad e Lincoln – mette in luce ancora una volta, dopo la figura dell’Oskar Schindler di Schindler’s List, la personalità unica di un uomo per cui una singola vita umana vale, pur nei suoi lati oscuri e contraddizioni, molto più del sentimento di appartenenza a qualsiasi schieramento.
Il ritmo del racconto è serrato, soprattutto nella seconda parte, in cui è una città di Berlino colta nelle prime fasi di innalzamento del Muro, immersa in un grigiore livido e spettrale, a fare da sfondo al tentativo di mediazione portato avanti da Donovan.
Tom Hanks è un James Donovan sagace ma dagli accenti umanissimi, tormentato dal raffreddore perché, mentre vaga per Berlino Est, gli viene sottratto il cappotto, che desidera concludere in fretta lo scambio tra i prigionieri americani e quello sovietico per poter fare ritorno a casa. Degno di menzione, per la misteriosa e felpata ambiguità che regala al suo personaggio, anche Mark Rylance, nei panni della presunta spia Rudolf Abel.
Elegantemente hitchcokiana la scena in cui Spielberg, nel finale, ci mostra il meccanismo del ricordo, evocando per analogia, attraverso lo sguardo di Donovan rivolto a dei bambini che scivolano giù da una rete di recinzione, il disperato tentativo di fuga dei berlinesi separati dal Muro.
Un film ben orchestrato, dal monito potente per un nuovo umanesimo.
Barbara Rossi