E’ un uomo perduto, Hugh Glass, il trapper americano interpretato da un Leo Di Caprio profondamente mutato in fisico e fattezze, cui la finalmente raggiunta maturità anagrafica e l’esperienza d’attore hanno regalato forza espressiva, autorevolezza; quasi sventrato dall’assalto di un grizzly, tradito e abbandonato dal gruppo di cacciatori di pelli di cui faceva parte – e, in particolare, dal cinico e depravato John Fitzerald – sfiancato dalla febbre, dalla fame, dal tentativo di sottrarsi alla ferocia degli indiani Ree e di altri come loro. Per una serie di tragiche coincidenze si trasforma, insomma, in un revenant: termine che etimologicamente fa riferimento a chi ritorna dopo una lunga assenza, ma anche – qui non a caso – alla figura dello spettro, di chi non appartiene più al mondo dei vivi. Revenant, nella letteratura e nel cinema del fantastico, serve ad indicare il non morto, o morto vivente.
Hugh Glass è proprio questo, e così tutte le pallide e stanche ombre – uomini e animali – che si trascinano, soffrono, muoiono malamente nei gelidi e arcigni territori del Sud Dakota, nel 1823.
Il film del messicano Iñárritu – reduce dall’Oscar per il surreale Birdman e conosciuto nel mondo per le sue cinematografiche riflessioni su destino, trascendenza e relazioni, sin dai tempi di Amores Perros, 21 grammi e Babel – è l’ultimo capitolo di un viaggio spesso straniante intorno e dentro l’uomo, le luci e ombre del suo cuore, le sue capacità di sopravvivenza fisica e spirituale in un mondo ostile, ambiguo, dominato dall’odio e dalla violenza.
Non c’è soverchia tenerezza neppure nel cuore di Glass, soffocata da un insostenibile dolore paterno eppure ricorrente nei sogni, nelle allucinazioni, echi di una dimensione mitica e nostalgica di cui gli indiani Pawnee sono rimasti gli unici custodi; eppure sopravvive un gesto minimo di rispetto e ringraziamento per un cavallo che, inconsapevolmente, gli ha salvato la vita. Eppure, alla fine Glass riesce a far suo il motto di un indiano amico: “la vendetta è nelle mani di Dio”.
Visionario ma anche estremamente materico, Revenant immerge lo spettatore nelle acque gelate di fiumi e torrenti, nella desolazione di foreste sterminate, nel lucore accecante di nevi perenni, tramite ampie panoramiche, disorientanti carrellate circolari e riprese dal basso, campi lunghissimi, a rappresentare la solitudine e piccolezza della condizione umana.
Di Caprio è il film; tutto ruota, anche figurativamente, intorno a lui, compresa un’inquadratura finale che non sveliamo.
A parte alcune (poche) banalità estetiche, dovute probabilmente a intenti di maggiore realismo, Revenant è una pellicola di grande impatto emotivo e narrativo, supportata da una regia che ha lavorato in condizioni ambientali estreme, utilizzando per le riprese la sola luce naturale.
A contatto con la durezza disperante di una storia che lascia esiguo spazio alle illusioni, torna alla mente una frase da Walden, vita nei boschi, di Thoreau: “Non l’amore, non i soldi, non la fede, non la fama, non la giustizia… datemi solo la Verità”.
Barbara Rossi